
Miles Davis non ha mai amato il rock. Questa è la premessa da tenere a mente. Se fosse ancora vivo, probabilmente guarderebbe con disprezzo quelli che ancora oggi definiscono Bitches Brew “un disco rock”.
Eppure, nel 1968, Davis iniziò il suo percorso di elettrificazione, timidamente con Miles In The Sky e poi sempre più spudoratamente. L’idea? Avvicinare la gioventù nera dell’epoca, che nel frattempo si scatenava sulle note di James Brown e Sly Stone. Il risultato? Un gigantesco buco nell’acqua. Mentre gente come Cannonball Adderley, Lonnie Smith, Donald Byrd e Herbie Hancock flirtava con il funk e riempiva le piste da ballo, Davis ottenne un pubblico di… bianchi capelloni appassionati di rock progressivo. Perché? Perché Bitches Brew, con le sue atmosfere torbide e i suoi brani infiniti, sembrava fatto apposta per quei ragazzi che nel ‘70 passavano le serate a contemplare la moquette dopo aver fumato roba di dubbia provenienza.
Sia chiaro: Bitches Brew è un disco straordinario, rivoluzionario, unico. Ma che il pubblico rock lo abbia capito è tutto un altro discorso.
Dal Rock al Jazz, per Malinteso
Negli anni ‘70, chiunque volesse fare il figo con la musica aveva una copia di Bitches Brew. Il disco girava sulle piastre accanto a Ummagumma, In the Court of the Crimson King e Atem dei Tangerine Dream. “Un album dei nostri” dicevano i più avanguardisti del rock, senza rendersi conto che Davis avrebbe preso quei vinili e ci avrebbe fatto delle sottobicchieri.
Non è che fossero in cattiva fede. Semplicemente, erano abituati a pensare che ogni album difficile e apparentemente incomprensibile fosse, per definizione, “bello”. Se non ci capisci niente, è perché sei davanti a un capolavoro, giusto?
E così, per un’intera generazione, Bitches Brew divenne il disco che sanciva il passaggio dall’infanzia rockettara alla maturità musicale. Ma c’è un problema: maturare significa capire quello che si ascolta, non semplicemente sostituire i riff con le dissonanze.
La Montagna Sacra del Riffone Amplificato
Ogni rocker inizia il suo cammino con certezze incrollabili. I Queen sono geniali. Gli AC/DC spaccano. Bruce Springsteen è il Boss. I Rolling Stones sono meglio dei Beatles. Tutto semplice, tutto rassicurante.
Ma poi arriva la tentazione dell’ignoto. Si scopre che esistono musicisti che suonano con l’abilità di un alieno e gruppi che sfidano ogni regola della canzone popolare. L’avventura inizia.
Minutemen. Velvet Underground. Captain Beefheart. Pere Ubu. Red Crayola. Neurosis. Can. Soft Machine. I riff diventano meno importanti. Le melodie? Un optional. La distorsione, un linguaggio.
Salendo sempre più in alto sulla Montagna Sacra del Riffone Amplificato, il rocker si sente un esploratore della verità musicale. Ogni passo è un distacco dal volgo ignorante che ascolta ancora gli Zeppelin. Si scoprono il krautrock, l’industrial, il post-punk. Il jazz diventa l’ultimo mistero da svelare.
Ma quale jazz?
L’Illuminazione: Il Rocker Esoterico e il Free Jazz
Un rocker evoluto non può certo abbassarsi a canticchiare Cheek to Cheek. Il jazz che gli interessa è quello difficile. Ecco perché il Free Jazz diventa la destinazione inevitabile.
Ornette Coleman, Albert Ayler, Peter Brötzmann. Nomi da pronunciare con fare mistico, perfetti per terrorizzare chi credeva che il jazz fosse solo “musica da ascensore”.
La critica rock degli anni ‘60 e ‘70 ha giocato un ruolo chiave in questo fenomeno. Ogni volta che un album sembrava indigesto, lo si dichiarava “avanti anni luce”. Il brutto diventava bello, il caotico diventava poetico. L’errore? Pensare che l’ostico sia per forza sublime e che il jazz pre-bebop sia solo roba da sala da ballo.
Questo è il momento in cui il rocker esoterico rischia di perdere la bussola.
Scemenza & Prevenzioni Musicali
Ed eccoci alla questione cruciale: chi ha detto che la complessità debba essere l’unico criterio di valutazione?
L’errore fatale è quello di trasformare l’incomprensibile in una religione. Se un album ti respinge, allora vuol dire che è profondo. Se non riesci a fischiettarlo sotto la doccia, allora deve per forza contenere verità nascoste.
E così ci ritroviamo con rocker che hanno tutta la discografia di Peter Brötzmann ma che non sanno dire due parole su Louis Armstrong. Con ascoltatori che hanno masticato il catalogo ESP-Disk ma che credono che Duke Ellington sia solo un “bel melodista”. Con critici che liquidano il jazz pre-bebop come semplice intrattenimento, ignorando che senza Armstrong, Coleman Hawkins e Lester Young, oggi non avremmo né Davis, né Coltrane, né Coleman.
Non è questione di nostalgie. Nessuno sta dicendo che bisogna tornare a Muskrat Ramble e dimenticare Ascension. È una questione di apertura mentale. La stessa che ha permesso a molti rocker di avvicinarsi al jazz dovrebbe essere applicata anche all’interno del jazz stesso.
Perché se dopo tutto questo tempo pensi ancora che Bitches Brew sia un disco rock…
Beh, allora non hai capito niente. Ma proprio niente.
(Luigi Colzi)
Prompt:
Intro: Miles Davis iniziò il suo percorso di elettrificazione del sound a piccoli passi, a partire da "Miles In The Sky" del1968. L'obiettivo era quello di avvicinarsi gradualmente alla gioventù nera del periodo e alla sua musica di riferimento: il funk. La mossa, da questo lato, fallì clamorosamente (mentre riuscì ad altri - Cannonball Adderley, Lonnie Smith, Donald Byrd, Freddie Hubbard, Herbie Hancock solo per dirne qualcuno). Per eterogenesi dei fini, un album in particolare del Davis elettrico spopolò presso il pubblico rock del periodo.
Dal rock al jazz: I primi assaggi di jazz per il pubblico rock sono avvenuti negli anni '70, quando presso il pubblico del rock iniziò a spopolare "Bitches Brew" di Miles Davis. Disco di cui tutto il pubblico rock "che ne sa" si innamorò, senza naturalmente capirci niente. Ma soprattutto, continuando imperterrito a non capirci niente e a considerarlo un disco "dei nostri". Miles Davis. Che odiava il rock. Dei nostri. Sicuri di averlo capito? Ovviamente no, ma la cosa sconfortante è che sono passati 55 anni e si persevera negli stessi errori.
Rock: Molte persone iniziano ad apprezzare il rock attraverso gruppi famosi e accessibili (Queen, AC/DC, Springsteen, Rolling Stones, Aerosmith, Nirvana...), ma possono poi scegliere di esplorare generi più complessi e meno conosciuti. Gli appassionati che scalano la "Montagna Sacra del Riffone Amplificato" seguono poi un percorso iniziatico, apprezzando band come Neurosis, Velvet Underground, Can, Skinny Puppy, Red Crayola, Minutemen, Captain Beefheart, Pere Ubu, Soft Machine e molti altri, comprendendo musica che l'ascoltatore medio troverebbe troppo complessa o lontana dalla melodia orecchiabile. Arrivato fin lì, mica vorrai tornare indietro, no? Ormai sei cresciuto!
Rocker esoterico: è qualcuno che, dopo aver raggiunto una profonda conoscenza del rock, può essere portato a esplorare il jazz, specialmente il free jazz, spesso citato erroneamente dalla critica rock per descrivere musica rumorosa e dissonante. Questo atteggiamento è figlio di una critica legata a un modello di vetusto pensiero degli anni '60, che fa coincidere l'indigeribile e l'ostico col bello e vede il jazz pre-bebop come semplice intrattenimento.
Scemenza: Confondendo l’estetica della complessità con la complessità in sè, e facendo di quest’ultima l’esclusivo parametro di valutazione secondo criteri di elitarismo pezzente, si arriva all’incapacità di comprendere l’arte di Louis Armstrong (forse il più importante musicista del '900) e di avere tutta la discografia di Peter Broetzmann (una nota a piè di pagina). Ma non prendete quest’ultima uscita come un “o tempora o mores”, mi raccomando. E' un invito a far piazza pulita di un sacco di pregiudizi e ad avvicinarsi a “quella roba” con orecchi nuovi.
Articolo: intro, dal rock al jazz, rock, rocker esoterico, scemenza. Approfondisci dove ritieni necessario.
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