
Quando ho scritto l’ultima volta di Donald Trump e del suo approccio stile “palla da demolizione”, ho detto chiaramente – e senza mezzi termini – che si trattava di un classico esempio di idiozia e incompetenza al potere. Non per pregiudizio ideologico, ma per semplice osservazione dei fatti. Tuttavia, per puro esercizio intellettuale – e perché no, pure per divertimento – ho deciso di tentare un’operazione di reverse engineering: e se, dietro a quelle che sembrano mosse insensate, ci fosse in realtà un disegno? Magari rozzo, magari cinico, ma pur sempre un disegno.
Un nuovo ordine mondiale a colpi di clava
L’obiettivo – se davvero esiste una bussola nella tempesta trumpiana – sembra quello di riscrivere l’ordine globale degli ultimi ottant’anni. Parliamo di quell’equilibrio in cui gli Stati Uniti hanno mantenuto un ruolo egemone, garantendo, nel bene e nel male, una certa stabilità: economica, politica, militare. Trump, invece, sembra voler gestire una transizione verso un nuovo ordine multipolare, sfruttando fino all’osso le leve di potere attuali, con un approccio da “ponti bruciati” e zero intenzione di ritorno.
È una strategia da “gioco a perdere”, in cui vince non chi guadagna di più, ma chi perde meno nella corsa al nuovo equilibrio. Una strategia da guerra commerciale permanente, da diplomazia distruttiva, da egemonia muscolare. Una strategia – concedetemelo – che ricorda certe ristrutturazioni aziendali fatte con l’accetta, dove si taglia tutto senza sapere se poi resterà qualcosa da far funzionare.
La sottovalutazione della capacità di reazione degli altri attori globali è, qui, il vero errore capitale. La guerra in Ucraina ha mostrato che la Russia, pur isolata, è tutt’altro che inerme. Allo stesso modo, la cooperazione crescente tra Cina, Giappone e Corea del Sud – storicamente rivali – dimostra che l’Asia sta imparando a fare sistema. E mentre Washington alza muri, altrove si costruiscono ponti. Non sempre solidi, certo, ma pur sempre ponti.
Trappole per turisti al vertice del potere
Se vogliamo analizzare il lato negoziale del trumpismo, il paragone più calzante è quello delle trappole per turisti. Avete presente? Promesse roboanti, servizio scadente, e l’unico obiettivo è spennare il cliente una volta sola. Nessuna fidelizzazione, nessuna reputazione da difendere. Una mentalità da “una volta e via”, che forse può funzionare nella compravendita di immobili a Manhattan – dove Trump ha avuto successi alternati a bancarotte –, ma che non regge a livello geopolitico.
Il mondo non è fatto di turisti di passaggio. I principali attori economici sono pochi, grandi e interconnessi. Per mantenere il dollaro come valuta di riferimento mondiale – privilegio che consente agli Stati Uniti di finanziarsi a costi minimi – serve credibilità.
Se i partner commerciali iniziano a mettere in discussione l’affidabilità degli Stati Uniti, e cercano alternative al dollaro – dal renminbi digitale al paniere di valute dei BRICS – allora non siamo più in presenza di una trattativa aggressiva. Siamo sull’orlo di una secessione sistemica.
Europa, svegliati. Il futuro non aspetta
C’è un altro aspetto che non possiamo ignorare: il rischio di una transizione caotica e imprevedibile. L’instabilità americana può avere effetti dirompenti, soprattutto su un continente come l’Europa, ancora troppo dipendente da Washington per sicurezza, energia e – diciamolo – anche per iniziativa politica.
L’Europa si trova oggi di fronte a una delle sfide più complesse dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Eppure, il tono dominante nei palazzi di Bruxelles e nelle cancellerie nazionali sembra ancora quello del ragioniere, non dello stratega. Calcoli prudenti, compromessi continui, visione limitata al prossimo bilancio. Una postura che era tollerabile in tempi di ordine stabile, ma che diventa letale in una fase di trasformazione.
La verità è che non abbiamo più il lusso della neutralità strategica. Le tensioni tra Stati Uniti e Cina, il riarmo russo, l’instabilità africana, l’accelerazione tecnologica: sono tutti segnali che il vecchio paradigma sta crollando. Trump – nel bene o nel male – è stato un catalizzatore di questa trasformazione, e la sua rielezione nel 2024 (ora 2025) non farà che rafforzare la pressione sugli alleati europei.
Quali sono i rischi concreti?
- Disallineamento NATO: se gli Stati Uniti dovessero disimpegnarsi dall’Alleanza Atlantica o condizionare il loro supporto a vantaggi commerciali diretti, l’Europa si troverebbe militarmente esposta come non accadeva dal 1945.
- Shock valutario e finanziario: come vedremo tra poco, l’eventuale erosione della fiducia nel dollaro può colpire direttamente le nostre riserve, gli scambi internazionali e persino i nostri sistemi bancari.
- Guerra tecnologica: l’esclusione di Huawei, le restrizioni sui chip, la corsa all’IA: tutto indica che stiamo entrando in un’epoca di frammentazione digitale, dove l’Europa rischia di diventare una periferia tecnologica, salvo scatti di orgoglio.
- Pressioni migratorie e destabilizzazione regionale: l’instabilità crescente in Medio Oriente e in Africa subsahariana – spesso acuita da guerre per procura o ritiri affrettati – ha effetti diretti sulle nostre frontiere.
Serve, quindi, una politica estera e industriale autonoma. Non significa antiamericana, né illusoriamente neutrale. Significa, semplicemente, capace di difendere interessi europei in un mondo dove nessuno lo farà per noi. Difendere il mercato unico, proteggere le filiere strategiche, investire in difesa comune, sviluppare una sovranità energetica e tecnologica: tutto ciò non è più facoltativo. È dovere storico.
Se il dollaro vacilla, il mondo trema
Veniamo ora a un punto spesso trascurato ma cruciale: il futuro del dollaro come valuta di riferimento globale. Non è un dettaglio tecnico: è il fondamento del potere americano.
Il dollaro è oggi la valuta utilizzata in circa l’88% delle transazioni globali, secondo i dati della BIS. Le riserve valutarie mondiali sono ancora per oltre il 60% denominate in dollari. Questo consente agli Stati Uniti di:
- finanziarsi a basso costo, attirando capitali in cerca di sicurezza;
- esercitare potere sanzionatorio, grazie al controllo del sistema SWIFT e delle clearing houses in dollari;
- imporre la propria stabilità normativa come standard implicito.
Tuttavia, la fiducia in questa centralità si regge su alcuni pilastri: credibilità politica, prevedibilità economica, solidità istituzionale. Tutte qualità che l’era Trump ha messo in discussione. La politicizzazione della Fed, la minaccia di default sul debito pubblico, il ricorso massiccio a dazi e guerre commerciali: tutto contribuisce a intaccare l’aura del dollaro.
I segnali sono ancora deboli, ma significativi:
- Cresce l’uso delle valute locali negli scambi bilaterali tra Cina, Russia, India e Brasile.
- Si moltiplicano i progetti di valute digitali sovrane, alternative ai circuiti dominati dal dollaro.
- Aumentano le discussioni sull’“exit from the dollar” nei Paesi colpiti da sanzioni o eccessiva dipendenza.
Ora, nessuno prevede il crollo imminente del dollaro. Ma anche una sua lenta erosione può cambiare gli equilibri globali. Per l’Europa – che commercia, prende a prestito e investe in dollari – ciò significa perdita di controllo. Perdita di influenza. Perdita di stabilità.
Saper distinguere il caos dalla strategia
Tornando al nostro esperimento di reverse engineering: può darsi che il trumpismo sia, in qualche modo, una strategia. Una mossa cinica per forzare una nuova realtà, per spezzare le vecchie regole prima che lo facciano altri. Ma, anche se così fosse, resta un gioco pericoloso condotto da dilettanti, senza consapevolezza delle conseguenze, senza rispetto per la complessità.
E allora, la vera domanda che dobbiamo porci è: quanto ci costa continuare a reagire, invece di iniziare a prevedere?
Come sempre, i numeri raccontano una storia. Ma decidere che tipo di storia vogliamo scrivere, quella è ancora una nostra responsabilità.
(Emma Nicheli)
Prompt:
Intro: quando ho scritto l'ultima volta di Donald Trump e dell'approccio stile "palla da demolizione" della sua nuova presidenza, ho detto chiaramente che si tratta di un classico esempio di idiozia e incompetenza al potere. Per puro esercizio intellettuale però ho deciso di fare un po' di "reverse engineering" e individuare la strategia dietro a queste mosse insensate.
parte 1: l'obiettivo principale sembra quello di riscrivere l'ordine globale degli ultimi 80 anni, in cui gli Stati Uniti hanno mantenuto un ruolo egemone. Questa strategia mira a gestire una transizione verso un nuovo ordine multipolare, sfruttando al massimo le leve di potere attuali, anche a costo di adottare una politica di "ponti bruciati" senza possibilità di ritorno. E' un "gioco a perdere" in cui vince chi perde meno. Si tende a sottovalutare la capacità di reazione di altri attori globali, come dimostrato dalla guerra in Ucraina e dalla crescente cooperazione tra Cina, Giappone e Corea del Sud.
parte 2: le capacità negoziali di Donald Trump sono simili a quelle delle trappole per turisti: offrire un servizio scadente e sfruttare il cliente, senza preoccuparsi di fidelizzarlo. Sebbene questo approccio possa funzionare nel settore edilizio, dove Trump ha avuto successi alternati a fallimenti, non è efficace a livello globale, dove i principali attori economici sono pochi e interconnessi. Per mantenere il dollaro come moneta di riferimento mondiale, è necessario un sistema economico stabile, solido, prevedibile e trasparente. Le politiche di Trump, invece, con tariffe e scelte che destabilizzano il sistema, rischiano di rendere il dollaro meno affidabile, spingendo gli altri Paesi a cercare alternative.
parte 3: Attenzione ai pericoli di una transizione caotica e imprevedibile, sottolineando la necessità per l'Europa di prepararsi a scenari impensabili, incluso il rischio di conflitti armati.
parte 4: fine del "reverse engineering". Magari la strategia è proprio questa, ma resta condotta da un branco di improvvisati.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4; approfondisci dove necessario.
Assumendo la personalità di Emma Nicheli, scrivi un articolo approfondito, con tono serio ma gradevole, non privo di una certa ironia.
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