Una Narrativa Disturbante e Reale

Lo scorso weekend ho guardato “Adolescence”. Una miniserie su Netflix, inglese, ruvida, silenziosa, dura quanto basta per farsi notare ma non abbastanza per cambiare le regole del gioco. Non è la serie dell’anno, ma è un prodotto onesto. E sì, lo dico subito: l’ho apprezzata. Ma prima di parlarne sul serio, serve una precisazione sul clima culturale tossico in cui ormai siamo immersi fino al collo.

Viviamo nell’era dell’hot take da 280 caratteri, dove qualsiasi cosa che diventa popolare è subito passata al tritacarne dei cinici da tastiera. Non perché faccia schifo davvero, ma perché oggi fa figo essere “contro”. Il valore non si misura più in qualità, ma in quanto riesci a smontare qualcosa che agli altri è piaciuto. La nuova forma di snobismo è il disprezzo automatico per il mainstream. Patetico. Ma tant’è. Il cortocircuito perfetto del pensiero debole: niente è abbastanza intelligente per essere difeso, tutto è abbastanza visibile per essere distrutto.

Una serie da pomeriggio — e non è un insulto

“Adolescence” è breve, compatta, si guarda in un pomeriggio. Una scelta produttiva che rispetto: il ritmo lento viene sorretto da una regia intelligente, fatta di lunghi piani sequenza che evitano la spettacolarizzazione da videoclip. La camera si muove come un testimone invisibile, e riesce — con poco — a restituire molto.

Siamo dentro una storia che non ha bisogno di effetti speciali per essere disturbante. C’è il true crime, c’è la psicologia adolescenziale, ci sono la scuola e la famiglia. Non viene approfondito tutto, ma il punto non è l’esaustività. Il punto è l’equilibrio. Quello c’è. E per una volta, in un prodotto Netflix, non viene sacrificato sull’altare della polemica facile.

Non è un true crime. Ma ci gioca

Non racconta un fatto di cronaca reale, ma prende a prestito dinamiche familiari al true crime: lo shock improvviso, il “non ce lo aspettavamo”, le vite distrutte da qualcosa che sembrava silenzioso ma cresceva da mesi, forse anni.

Il cast è perfettamente scelto. Niente facce da copertina. Volti comuni, medi, periferici. La normalità disturbante della classe media inglese. Il padre, la madre, la scuola in crisi, gli amici. Il mondo che ci viene mostrato non ha la pretesa di essere glamour, né tragico. È reale. E questo lo rende disturbante.

Peccato che a un certo punto arrivi l’inserto forzato: Redpill, Incel, Manosfera. Buttati lì come parole chiave per un pubblico che non sa davvero cosa siano. E nemmeno serve saperlo, onestamente. Il tema forte — quello giusto — sarebbe stato il bullismo e il cyberbullismo. Perché è lì che pulsa il male quotidiano. Non in qualche sottocultura iper-nicchia, ma nel modo in cui i ragazzini parlano tra loro, nel modo in cui si relazionano alle ragazze, nei genitori che non capiscono di che cosa parlano i loro figli.

Un ecosistema malato. Non serve l’Incel, basta la realtà

Il protagonista non è un Redpill convinto. E nemmeno un Incel militante. È un adolescente che naviga in un contesto dove certe idee tossiche si respirano come smog, anche senza accorgersene. Basta ascoltare le conversazioni degli amici. Basta guardare la leggerezza con cui certe battute, certi insulti, certi “valori” vengono dati per scontati. Le ragazze sono oggetti. L’amicizia con una femmina è una contraddizione in termini. Se ti rifiuta, ti gira il sangue. Semplice. Lineare. Distruttivo.

In questo clima culturale, non serve la Manosfera per spiegare un gesto estremo. Serve guardare in faccia il degrado del linguaggio, delle relazioni, della scuola, della famiglia. Serve tornare al punto: l’ignoranza digitale dei genitori, le scuole che chiamano ancora i Carabinieri per dire ai ragazzi che “internet è pericoloso” come fosse il 2006, e una società che ogni volta che provi a dire una cosa di buon senso ti dà del “woke”. È questo il contesto. Ed è esattamente qui che “Adolescence” colpisce più duro.

Lo dico io, che il politicamente corretto lo detesto. Ma se non si può più dire nemmeno che il bullismo è tossico senza passare per attivisti arcobaleno, allora abbiamo perso.

E forse, sì, forse mi ha colpito anche perché mio figlio ha la stessa età del protagonista.

Il tocco inglese: Ken Loach in chiave digitale

“Adolescence” non è una serie da mostrare nelle scuole. Non per tutti, almeno. Ma ha momenti forti, veri. L’irruzione della polizia, la rottura dell’equilibrio familiare, il modo in cui tutto collassa senza esplodere. Qui c’è davvero la “banalità del male”. Quella sottile, domestica, non ideologica. Quella fatta di frustrazione, solitudine, noia e silenzi.

La tradizione è quella dei social drama inglesi. C’è qualcosa di Ken Loach meets Black Mirror, senza la distopia: è già tutto qui. E Netflix, per una volta, ci ha azzeccato. Anche se — inutile negarlo — la piattaforma arranca da mesi tra flop clamorosi e spinte ideologiche confuse.

Un colpo secco, senza urla

“Adolescence” non cambia la storia della serialità. Ma racconta, con dignità e lucidità, uno spaccato di realtà che troppi fanno finta di non vedere. Non è spettacolare, non è retorica, non è neanche perfetta. Ma è necessaria. E in un’epoca dove l’unica cosa che sembra contare è la viralità, questa serie ha il coraggio di parlare sottovoce.

Ecco, magari non salverà il mondo. Ma mette il dito dove fa male. Senza paura. E senza chiedere scusa.
Come dovrebbe fare qualsiasi cosa che valga la pena guardare.

(Giovanni Sarpi)

Prompt:

Intro: Lo scorso weekend, ho avuto l'opportunità di vedere "Adolescence" e, dopo averci riflettuto, vorrei condividere alcune considerazioni. Prima di tutto, è importante discutere una condizione contestuale: nell'era dei social media, è comune trovare persone che criticano ciò che è popolare solo per mantenere uno status di "contro".

parte 1: la serie si può guardare in un pomeriggio, una scelta adeguata dato il ritmo lento. Utilizza la tecnica del piano sequenza, che aiuta a coinvolgere lo spettatore nella storia, anche se non punta sulla spettacolarizzazione dell'azione. Affronta vari aspetti della trama principale, come il true crime, la psicologia, la scuola e la famiglia, ma non approfondisce tutto. Personalmente, ho apprezzato l'equilibrio.

parte 2: Non è un true crime, ma ha elementi che possono attirare quel pubblico. Gli attori hanno volti comuni e rappresentano una famiglia media, una scelta giusta. La questione Redpill, Incel e Manosfera è inserita un po' forzatamente. Sarebbe stato efficace concentrarsi su bullismo e social media. La scuola dei protagonisti è ritratta come caotica e in difficoltà, una rappresentazione realistica di alcuni settori dell'educazione.

parte 3: Il ragazzo a quanto pare non seguiva davvero certi siti o almeno non attivamente, ma basta sentire come parlano i suoi amici per capire in che contesto sono cresciuti e quali "valori" più o meno coscientemente condividono: le femmine sono oggetti sessuali, mai amiche al pari di un amico maschio; ci piacciono certo, ma solo per quello, e se ci rifiutano ci girano le scatole. Per il pubblico a cui si rivolge (ovvero molto ampio), bastava ragionare sul bullismo e sul cyberbullismo senza afferire ad una sottocultura specifica. Siamo fermi molto prima: siamo ancora davanti a genitori che non sanno distinguere un social da un altro; siamo ancora agli incontri dei Carabinieri nelle scuole che dicono cose purtroppo non sempre aggiornate (e mezze comiche a volte); siamo pure in un clima in cui se solo provi a dire cose di buon senso sei wokeness, perché il momento storico/culturale è questo. E lo dico io che sono sempre contro la wokeness. Sarà perché mio figlio ha la stessa età del protagonista di "Adolescence"?

parte 4: "Adolescence" segue la tradizione inglese dei film sui "social problems" e sul realismo, come quelli di Ken Loach. Non è adatto per essere mostrato nelle scuole, ma ha momenti toccanti come l'irruzione della polizia e la rottura di un equilibrio, e il tema della banalità del male. Netflix ha fatto un buon lavoro, nonostante le recenti difficoltà.

Articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4. Approfondisci dove ritieni necessario.

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