Settanta­cinque coltellate, iene e avvoltoi

Settanta­cinque coltellate sono tante. Una, due, tre — già alla quarta la mano dovrebbe tremare. Alla settantacinquesima non tremi più: o sei impazzito, o hai trovato un ritmo. Eppure, secondo la Corte, non c’è crudeltà. C’è inesperienza nell’uccidere. È come dire che se un chirurgo ti lascia sul tavolo perché ha sbagliato vena, non è colpa sua: era alle prime armi. Ma qui non parliamo di bisturi, parliamo di un coltello, e di una ragazza che non c’è più.

A questo punto, però, mi tocca fare un distinguo. Perché nel turbine di indignazione che ha seguito la decisione sul caso Filippo Turetta – Giulia Cecchettin, c’è un colpevole silenzioso, anzi, rumoroso: la stampa. E allora facciamola, questa autopsia morale. Ma stavolta sul corpo vivo dell’informazione italiana, che, come un avvoltoio sopra una carcassa ancora tiepida, non aspettava altro che spolpare il caso per un altro giro di click.

La Corte e l’Inesperto Macellaio

La Corte ha parlato, e lo ha fatto come spesso fa la giustizia italiana: in punta di codice, ma lontana dal cuore pulsante del popolo. Ha detto: “Non c’è crudeltà, ma inesperienza.” Non ha riconosciuto l’aggravante. E badate bene, non per assolvere, ma perché nella loro interpretazione l’ergastolo basta e avanza. Difficile da accettare? Certo. Ma la legge non ha il compito di consolare le coscienze — dovrebbe avere quello di amministrare giustizia.

Ora, io non sono un fan del giustizialismo da talk show, né tantomeno dei tribunali di Twitter. Ma se c’è una cosa che mi manda di traverso il caffè mattutino, è l’ipocrisia dei giornali, pronti a fare titoloni scandalistici tipo “Uccisa con 75 coltellate: non fu crudeltà”, dimenticandosi però di scrivere in grassetto, nella stessa pagina, “Ergastolo confermato”. No, troppo sobrio. Troppo poco indignato. Troppo poco virale.

Media, sciacalli e il mestiere della morte

Con tutta la comprensione per amici, parenti, conoscenti e anche per i tanti italiani sinceramente turbati dalla vicenda, qui ci troviamo di fronte a un doppio spettacolo dell’orrore. Il primo, quello del delitto. Il secondo, quello della sua rappresentazione.

Perché ormai il delitto in Italia non fa più notizia se non è raccontato con una colonna sonora tragica, un pizzico di voyeurismo e una buona dose di sangue digitale. Il corpo di Giulia è diventato un palcoscenico, e sopra ci danzano opinionisti, influencer travestiti da criminologi, e giornalisti da tastiera che fino a ieri scrivevano di Amici di Maria De Filippi.

Non c’è più pudore, né rispetto, né decenza. C’è solo la fame, quella di click, di like, di condivisioni. Il giornalismo italiano, quello vero, muore ogni giorno un po’ di più. Al suo posto, cresce una fiera ambulante fatta di indignazione istantanea e retorica usa-e-getta.

Femminicidio: simboli, leggi e zone grigie

La questione si fa ancora più delicata se inserita nel contesto dell’aggravante del femminicidio, introdotta per rafforzare la protezione delle donne — sacrosanto — e punire in modo più severo i crimini “di genere”. Ma qui entra in gioco una dinamica pericolosa, quella della giustizia simbolica.

Perché il simbolo è potente, sì, ma la legge deve essere precisa, e non retorica. Il rischio è evidente: un diritto penale emotivo, costruito sull’onda della commozione pubblica e sulla necessità di rispondere con gesti forti. Ma la legge non è un tweet. È un meccanismo delicato, e se ci metti dentro troppi “valori”, comincia a cigolare. E quando cigola, il diritto smette di essere uguale per tutti.

Reati, aggravanti e il gioco delle etichette

E qui entriamo nel circo delle aggravanti a posteriori, dove il medesimo reato può assumere contorni diversi a seconda della vittima, della sua identità di genere, della sua età, del suo stato civile, perfino dell’orientamento sessuale. Una specie di morra cinese penale: se la vittima è donna → femminicidio; se è minore → omicidio aggravato; se è disabile → aggravante per condizioni di inferiorità fisica o psichica; se è straniero, magari anche razzismo. E via discorrendo.

Il punto non è negare che alcune vittime siano più vulnerabili. Il punto è: dobbiamo giudicare il reato, non l’identità di chi lo subisce. Il coltello è lo stesso, l’intento omicida pure. La sofferenza non si misura in base alle categorie del politicamente corretto. Ma ormai pare che serva un’intersezione di identità per meritare una giustizia completa.

È giusto tutto questo? È giusto che lo stesso omicidio, compiuto nelle medesime circostanze, possa avere pene radicalmente diverse a seconda di chi sei, chi ami o quanti like aveva il tuo profilo Instagram? Io dico di no. Io dico che la giustizia deve essere cieca, non bendata solo quando fa comodo.

Più serietà, meno teatrini

C’è una parola che manca in tutta questa vicenda: sobrietà. Manca nei palazzi della giustizia, che si perdono a volte in formalismi dissonanti rispetto al senso comune. Manca, soprattutto, nella stampa, che ha trasformato un dolore vero in una fiction da prima serata.

Chi scrive ha visto troppe volte questo copione: l’Italia indignata, la stampa impazzita, i tribunali assediati, e poi, lentamente, l’oblio. Tutto dimenticato, tutto archiviato, fino al prossimo cadavere utile.

Ma io non ci sto. E invito chi legge a non cascarci più: non fatevi prendere per il naso dai titoli urlati, dai moralismi posticci e dalle indignazioni telecomandate. Guardate dentro le cose. Leggete le motivazioni, non solo i titoli. E pretendete giustizia, non giustizialismo.

Perché il rispetto per Giulia, e per tutte le vittime, comincia da lì: dal silenzio dove serve, e dalla verità dove conta.

(Francesco Cozzolino)

Prompt:

Intro: settantacinque coltellate sono tante. Ma non c'è crudeltà, dice. E che è, voleva farci la tartara? Queste le polemiche sul mancato aggravante riconosciuto a Filippo Turetta per l'omicidio di Giulia Cecchettin. Polemiche, in realtà, ascrivili ad un colpevole ben preciso: la stampa.

parte 1: La Corte ha motivato la sua decisione affermando che le 75 coltellate inflitte alla vittima non dimostrerebbero una volontà di infliggere sofferenze gratuite, ma piuttosto inesperienza nell'uccidere. Immagino che la Corte abbia avuto i suoi motivi, magari discutibili. Resta sicura una cosa: la condanna all'ergastolo, che invece la stampa mette disonestamente in secondo piano.

parte 2: con tutta la comprensione possibile per amici e partenti di Giulia, l'intera vicenda a questo punto diventa emblematica - del pessimo servizio resto dai media nostrani, pronti come iene a spolpare ogni cadavere (in questo caso, letteralmente) per qualche click, e pure del nostro apparato giudiziario.

parte 3: la questione si inserisce in quella della recente aggravante del femminicidio, introdotta per rafforzare la protezione delle donne e punire più severamente i crimini di genere. Forte valore simbolico, ma molto scivoloso dal punto di vista giuridico.

parte 4: fai esempi sulla situazione paradossale di uno stesso reato con molteplici aggravanti, tutte eventualmente dimostrabili a posteriori, in base alle categorie della vittima.

Articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5. Approfondisci dove ritieni necessario.

Assumendo l'identità di Francesco Cozzolino descritta sopra, scrivi un Articolo; usa un tono irriverente.

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