Referendum sul lavoro: una battaglia d’epoca in un’Italia che è già altrove

L’8 e il 9 giugno, milioni di italiani saranno chiamati alle urne per votare su cinque quesiti referendari in materia di lavoro. Licenziamenti, contratti a termine, tutele crescenti: termini che sembrano evocare un’epoca passata più che parlare al cuore pulsante delle preoccupazioni odierne. E infatti, il vero protagonista — o meglio, il grande assente — rischia di essere l’elettore stesso. Perché, diciamolo: in un’Italia che fatica ad arrivare a fine mese, chi ha davvero voglia di interrogarsi sul comma 1, lettera b, dell’articolo 18?

Eppure, l’iniziativa referendaria merita attenzione. Non tanto per i contenuti, quanto per ciò che rivela: un persistente scollamento tra la classe politica, i promotori sindacali e la realtà che vivono le famiglie, i lavoratori e le imprese italiane.

Jobs Act: un capro espiatorio invecchiato male?

Tre dei cinque quesiti proposti riguardano il Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro varata nel 2015 dal governo Renzi. Si chiede di abrogare norme su licenziamenti e contratti a termine, con l’idea — almeno nei proclami — di restituire “dignità e stabilità” al lavoro. Una retorica altisonante, che però fa i conti con una realtà statistica piuttosto scomoda per i promotori: secondo l’ISTAT, rispetto al 2014, l’Italia ha guadagnato oltre due milioni di occupati. Il tasso di disoccupazione è sceso dal 12,7% a poco più del 7%. E, dettaglio non irrilevante, la maggior parte di questi nuovi posti di lavoro è a tempo indeterminato.

Certo, non è tutto oro quel che luccica: le riforme possono avere effetti collaterali, e il mercato del lavoro resta imperfetto. Ma sostenere, oggi, che il Jobs Act abbia creato una “generazione di precari” appare più un esercizio retorico che un’analisi fondata. Forse, sarebbe più onesto dire che i problemi veri stanno altrove — e che certe battaglie, pur nobili in teoria, sono rimaste intrappolate in un’idea di lavoro che non c’è più.

Il vero dramma: lavorare (tanto) e guadagnare (poco)

E allora, dove sono questi problemi? Basta guardarsi intorno. Il cittadino medio italiano oggi lavora più di ieri, spesso con contratti regolari, ma guadagna poco più di dieci anni fa. I salari reali sono fermi al palo. Alcuni settori, come quello manifatturiero, sono stati ridimensionati o delocalizzati. Altri, come la logistica o i servizi, prosperano ma con dinamiche retributive tutt’altro che generose.

In termini economici, potremmo dire che siamo vittime di una stagnazione salariale aggravata da bassa produttività. Ma in termini umani, il concetto è ancora più chiaro: si lavora tanto e si vive male. È questo il vero vulnus della questione occupazionale italiana. Non tanto se si può licenziare un dipendente con più o meno preavviso, ma se il lavoro permette ancora di costruire una vita dignitosa. Spoiler: per molti, la risposta è no.

E il paradosso è servito: mentre ci affanniamo a discutere su tutele crescenti, trascuriamo le sfide strutturali che determinano la qualità e il valore del lavoro. Formazione inadeguata. Un sistema fiscale e contributivo che disincentiva l’assunzione. Poche politiche industriali degne di questo nome. Scarsa capacità di attrarre investimenti in settori ad alto valore aggiunto. Qui sta il nodo gordiano, non nella giurisprudenza sul reintegro.

Il rischio dell’irrilevanza (e quello, peggiore, della distrazione)

Ed eccoci al punto cruciale. I referendum dell’8 e 9 giugno sono, nel migliore dei casi, una battaglia simbolica. Un tentativo di riaccendere il dibattito sul lavoro, ma con strumenti e argomenti che parlano al passato. Nel peggiore dei casi, rischiano di essere un diversivo, una distrazione da ciò che conta davvero.

Chi ha oggi venticinque o trent’anni, non si chiede se sarà tutelato da un reintegro giudiziario in caso di licenziamento illegittimo. Si chiede se potrà mai comprare casa. Se avrà una pensione. Se avrà un lavoro domani. E soprattutto, se il suo lavoro sarà mai pagato il giusto. Sono domande a cui nessuno dei quesiti in programma osa nemmeno avvicinarsi.

Fermiamoci un momento: serve una nuova agenda per il lavoro

È facile accusare il sistema di essere “contro i lavoratori”. Più difficile è proporre un’agenda moderna, capace di unire flessibilità e sicurezza, incentivi e responsabilità. Un’agenda che affronti davvero i nodi: formazione continua, politiche attive del lavoro, defiscalizzazione del salario, innovazione tecnologica e attrazione dei talenti.

La partecipazione al voto è un diritto sacrosanto. Ma per meritare l’attenzione dei cittadini, la politica deve offrire proposte all’altezza delle sfide del nostro tempo. Altrimenti, il rischio è che anche gli strumenti più nobili — come il referendum — si trasformino in esercizi di stile. E che, ancora una volta, la vera voce del Paese resti inascoltata.

(Emma Nicheli)

Prompt:

Intro: L'8 e il 9 giugno si terranno i referendum su licenziamenti e contratti a termine, ma per i promotori l’ostacolo più grande sarà l’astensionismo. La partecipazione al voto continua a calare a ogni tornata elettorale, e questo si somma a un altro problema: i quesiti referendari riguardano temi che, oggi, sembrano meno rilevanti rispetto al passato.

parte 1: Dei cinque quesiti in programma, tre riguardano aspetti del Jobs Act, in particolare il lavoro a tempo determinato e i licenziamenti. I dati ISTAT mostrano che, rispetto al 2014, l’occupazione in Italia è aumentata di oltre due milioni di unità, con un tasso di disoccupazione annuale più che dimezzato. Inoltre, gran parte di questo incremento riguarda il lavoro stabile, a tempo indeterminato. Di conseguenza, diventa più complesso sostenere che il Jobs Act abbia creato precarietà e disoccupazione, come invece affermano i promotori del referendum.

parte 2: Se dieci anni fa la disoccupazione e la precarizzazione erano tra le principali preoccupazioni dei lavoratori, oggi la questione più pressante è quella dei salari. Nonostante il miglioramento occupazionale, i redditi restano fermi, e per molti italiani arriva a fine mese è sempre più difficile. La mancanza di una crescita salariale deriva da diversi fattori, tra cui la bassa produttività, la riduzione delle attività industriali e la prevalenza di settori economici meno remunerativi. Problemi complessi, che richiedono interventi strutturali su investimenti, politiche industriali e formazione.

parte 3: I referendum, però, non affrontano questi temi in modo diretto. Nel migliore dei casi, rischiano di essere irrilevanti rispetto alle reali sfide del mondo del lavoro; nel peggiore, potrebbero persino distogliere l’attenzione dalle questioni più urgenti. In un contesto di crescente disillusione elettorale, questi referendum rischiano di trasformarsi in un esercizio senza impatto, confermando la necessità di un dibattito più ampio e profondo sul futuro del lavoro in Italia.

articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3; approfondisci dove necessario.

Assumendo la personalità di Emma Nicheli, scrivi un articolo approfondito, con tono serio ma gradevole, non privo di una certa ironia.


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