Stato di diritto, questo sconosciuto

Possibile? Eccome. Possibilissimo. In un Paese che sembra aver confuso il giusto con il gridato, il processo con il processo mediatico, la giustizia con la vendetta e la sentenza con il titolo di giornale, il “caso Garlasco” diventa molto più di un cold case giudiziario: è lo specchio tragico e grottesco di una Repubblica affamata di colpevoli, anche quando non ce ne sono. Un Paese dove “l’innocente” è una categoria filosofica, non giuridica. Dove chi esce assolto viene guardato con sospetto: «Sì, ma qualcosa avrà pur fatto». È l’Italia dei talk show travestiti da tribunali, dei PM in diretta e dei cronisti forensi da rotocalco. È l’Italia, soprattutto, che ha dimenticato cosa significhi davvero stato di diritto.

Torniamo dunque a Garlasco. Torniamo in quell’aula dove il tempo non passa mai e la giustizia si diluisce come un vecchio vino rancido, troppo acido per essere bevuto, troppo costoso per essere buttato.

In dubio, pro chi?

Il caos giudiziario emerso attorno al caso Poggi-Cristina è la prova più dolorosa – e insieme più illuminante – di quanto ci siamo allontanati da uno dei pilastri della civiltà giuridica: in dubio pro reo. Non stiamo parlando di una trovata da penalisti moderni o di un capriccio garantista: stiamo parlando di un principio codificato nel Digesto Giustinianeo del 533 d.C., ovvero quando l’Europa non era ancora nemmeno un’idea, e Roma ci ricordava che la legge è ciò che difende, non ciò che punisce a prescindere.

Quel principio ci dice, senza possibilità di equivoci, che in presenza di dubbio, si deve assolvere. Perché un colpevole libero è un fallimento, certo, ma un innocente condannato è un crimine. Questo, una civiltà vera lo capisce. Una civiltà isterica, lo dimentica.

Nel caso Garlasco, i dubbi non erano semplici ombre. Erano coltri spesse, nebbie fitte, impalcature fragili costruite con indizi più mediatici che probatori. Eppure si è andati avanti, avanti e ancora avanti. Come se la giustizia fosse un’operazione a punti, una caccia al premio finale: il colpevole da offrire al pubblico.

Il PM, la doppia conforme e l’eterno ritorno del sospetto

La degenerazione assume tinte grottesche quando si considera che in Italia il Pubblico Ministero può impugnare una sentenza di assoluzione anche se è stata pronunciata due volte in modo conforme, cioè in primo e secondo grado. Questo è ciò che nel gergo si chiama doppia conforme assolutoria: due gradi di giudizio che giungono alla stessa conclusione, l’assoluzione. E dovrebbe bastare. Dovrebbe essere sufficiente a chiudere il sipario. Invece no.

Il PM può risalire in Cassazione e chiedere che tutto venga rifatto da capo. Ma rifatto perché? Perché non gli è piaciuta la risposta. Perché non è convinto. Ma non è compito suo essere “convinto”: è compito suo provare. E se due tribunali hanno già detto “non colpevole”, bisogna accettare la realtà, per quanto indigesta. Invece, si insiste.

Il risultato? Il processo si trasforma in un’opera aperta, come certi romanzi d’avanguardia che non finiscono mai. Le perizie si moltiplicano come funghi dopo la pioggia, gli esperti si accalcano sul corpo dell’imputato come chirurghi da talent show, la verità si frantuma in cento versioni. Ed è così che la giustizia italiana si ritrova ad assomigliare più a una setta gnostica che a un’istituzione repubblicana: mille interpretazioni, nessuna certezza.

Sedici anni, nessuna pace

Nel frattempo, chi si trova impigliato in questo meccanismo infernale non sconta una pena, ma una condanna all’indefinito. Non sa più cosa aspettarsi, né quando. Sedici anni. Sedici anni di udienze, titoli di giornale, condanne morali, riabilitazioni provvisorie, nuovi sospetti, vecchie perizie rispolverate, ricorsi infiniti. Sedici anni per sapere se si è colpevoli o innocenti.

Ma questo non è giustizia. Questo è accanimento. È tortura istituzionalizzata. È il contrario esatto di ciò che la nostra civiltà aveva costruito: il diritto come strumento di equilibrio, come presidio contro la vendetta, come argine all’arbitrio.

Dobbiamo chiederci, oggi, con coraggio e senza ipocrisia: è questa la giustizia che vogliamo? Una giustizia priva di orizzonti, dove la pena non inizia con la sentenza ma con l’inchiesta, e non finisce mai? O vogliamo tornare a un’idea più antica e più nobile, dove il dubbio non è un nemico ma una soglia da rispettare?

Una Repubblica senza memoria giuridica

L’Italia è il Paese che ha partorito il diritto romano, che ha dato i natali a Cesare Beccaria, che ha insegnato al mondo che la giustizia è forza temperata dalla legge. Ma oggi pare una nazione affetta da amnesia, dove il garantismo è visto come complicità e la presunzione d’innocenza come fastidio burocratico.

Se non recuperiamo il senso profondo di ciò che significa “stato di diritto”, se non torniamo a riconoscere nel dubbio un valore e non un difetto, continueremo a confondere la legge con la vendetta, e il processo con il linciaggio. E saremo destinati, ancora e ancora, a processi come quello di Garlasco: infiniti, incerti, disumani.

Alla fine, lo dico con amarezza e con passione: non è solo un imputato a essere sotto accusa. È la nostra civiltà.

(Francesco Cozzolino)

Prompt:

Intro: stato di diritto, questo sconosciuto. Possibile? In un paese che sembra aver scambiato la giustizia con la vendetta e il giustizialismo, affamato di colpevoli e gogne dopo un forte investimento emotivo pompato dall'informazione, è più che possibile. Torniamo a Garlasco.

parte 1: Il caos giudiziario emerso attorno al caso di Garlasco è una diretta conseguenza di un sistema che sembra discostarsi da un principio cardine della civiltà giuridica: in dubio, pro reo. Questo principio, sancito nel Digesto Giustinianeo nel 533 d.C., incarna un pilastro della giustizia che è stato tramandato e rispettato per oltre millecinquecento anni. La sua essenza è chiara e inequivocabile: di fronte al dubbio, la giustizia deve sempre favorire l'imputato, poiché è preferibile che un colpevole resti impunito piuttosto che un innocente venga condannato ingiustamente.

parte 2: Eppure, oggi assistiamo a una pericolosa erosione di questo principio. La possibilità concessa al Pubblico Ministero di impugnare una doppia conforme assolutoria (spiega cos'è) non solo mina la certezza del diritto, ma rappresenta un'offesa a quel fondamento millenario della civiltà giuridica. Il risultato è un’incertezza infinita, un susseguirsi di perizie, controperizie, ricostruzioni e speculazioni che trasformano la giustizia in un'arena di scienze criminologiche dove si moltiplicano i sospetti e si affievolisce la verità.

parte 3: Nel frattempo, chi è coinvolto in questo ingranaggio si trova a scontare una pena che si protrae nel tempo, senza mai avere una risposta chiara sul perché. Sedici anni di dubbi, di procedure tortuose, di sentenze che si susseguono senza mai restituire una certezza definitiva. È questa la giustizia che vogliamo? O è il segnale che il nostro sistema sta perdendo di vista l’equilibrio tra certezza della pena e tutela del diritto individuale?

Articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3. Approfondisci dove ritieni necessario.

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