
Come già ho avuto modo di dire – e lo ripeto con la serenità di chi non ha nulla da perdere – se Atene piange, Sparta non ride. E nel panorama desolante dell’intellettualità contemporanea, se la sinistra culturale ha ormai abdicato a ogni senso del ridicolo, trasformando il pensiero critico in un esercizio di autocoscienza collettiva da centro sociale, la destra non sta messa meglio. Anzi. Il nostro tempo ci ha regalato figure come Vittorio Sgarbi – che da anni vive in uno stato di trance narcisistica –, Luca Barbareschi – il cui curriculum mescola cinema, teatro e deliri –, Morgan – un genio autolesionista in perenne esilio da se stesso – e, naturalmente, Diego Fusaro, filosofo da discount che vorrebbe essere l’ultimo hegeliano d’Italia, ma finisce per sembrare l’addetto stampa del bar sport.
Ed è proprio a Fusaro che oggi voglio dedicare un pensierino, anzi due, dopo la lettura del suo ultimo parto filosofico: La dittatura del sapore.
Il sapore del delirio
Il titolo promette fuoco e fiamme. Ci si aspetterebbe una riflessione profonda sul gusto, sulla gastronomia come espressione dell’identità culturale, o persino sull’eros alimentare. E invece no. La dittatura del sapore è un pamphlet infarcito di slogan, in cui il Nostro denuncia – con la consueta aria da savonarola del supermercato – la trasformazione del cibo in nuova religione del tecnocapitalismo.
Fusaro ci spiega che mangiare non è più un atto conviviale, ma un rito vuoto, sottomesso alle logiche del mercato globale. Il cibo, da veicolo di simboli, memoria e comunità, sarebbe oggi un bene standardizzato, svuotato di senso, ridotto a semplice consumo. Una tesi che, detta così, parrebbe persino ragionevole. Ma il problema – come sempre accade con Fusaro – non è l’intuizione iniziale, ma ciò che ci costruisce sopra: un castello filosofico di sabbia che crolla alla prima marea di buon senso.
L’autore prende a schiaffi McDonald’s, il cibo etnico omologato, le multinazionali del gusto e pure gli chef-star, colpevoli – a suo dire – di aver trasformato il nutrirsi in spettacolo. Il pasto, secondo lui, non è più quello della nonna che impasta i ravioli ascoltando Mario Merola, ma una performance sterile per borghesi annoiati. Tutto vero, se non fosse che la sua è una visione caricaturale, da cartolina ingiallita. Come se la convivialità si fosse dissolta tutta d’un colpo con l’arrivo dei sushi bar.
L’utopia della trattoria perduta
Il cuore del libro – e al tempo stesso il suo tallone d’Achille – è la proposta fusariana di una “nuova filosofia del mangiare bene”, in cui il cibo torni a nutrire la mente oltre che il corpo. Una bellissima idea. Peccato che la formula proposta sa tanto di nostalgia canaglia e poco di analisi strutturale. Fusaro sembra voler riportare tutti a mangiare a tavola con la famiglia, il piatto di pasta fumante e un bicchiere di rosso, come se fossimo ancora nel 1956 e l’unico pericolo fosse la Coca-Cola.
Ma la società è cambiata. I ritmi di vita sono cambiati. Le famiglie non sono più patriarcali e numerose come ai tempi di Re Ferdinando. Le case non odorano più di soffritto ogni giorno, e spesso non è per colpa del “tecnocapitalismo”, ma della semplice evoluzione del modo di vivere. Ridurre tutto alla solita cantilena contro la globalizzazione – che Fusaro ripete più compulsivamente di un rosario – è, nel migliore dei casi, intellettualmente pigro.
Inoltre, mentre denuncia le disuguaglianze alimentari create dalla globalizzazione, Fusaro sembra ignorare che l’apertura dei mercati e l’abbattimento delle frontiere (che pure hanno tanti difetti) hanno anche permesso a milioni di persone di accedere a una varietà di cibi prima inimmaginabile. Oggi si può mangiare messicano a Napoli e napoletano a Berlino. È omologazione? Forse. Ma è anche scambio, contaminazione, evoluzione culturale. Proprio quella che Fusaro dice di difendere, salvo poi irrigidirsi in un’idea di “tradizione” che assomiglia più a un mausoleo che a una linfa vitale.
Un Fusaro da tavola
In definitiva, La dittatura del sapore è un libro che poteva essere brillante, ma si perde nel solito gorgo retorico fusariano. Un’operazione intellettuale che pretende di denunciare la superficialità moderna, ma finisce per affogare nella propria vacuità pomposa. Un’analisi che si vorrebbe profonda e militante, ma che rimane inchiodata a un’ideologia da bar di provincia, condita da un linguaggio pomposo e una logica da meme filosofico.
Fusaro sogna la trattoria come atto politico, la carbonara come gesto sovversivo. Ma dimentica che anche il passato, a cui guarda con occhio malinconico, non era poi così idilliaco. Non tutti avevano accesso al mangiar bene, e la convivialità spesso si mescolava a disuguaglianze feroci e miseria autentica. Mitizzare il tempo che fu non ci aiuta a comprendere il presente, né tantomeno a costruire un futuro in cui il cibo torni davvero a essere cultura.
E allora, caro Diego, la prossima volta che ti siedi a tavola, invece di scrivere un trattato sul tecnocapitalismo, goditi un piatto di melanzane alla parmigiana, ascolta una tarantella e ricorda che la tradizione non si difende con le formule astratte, ma con l’umiltà del pane condiviso.
(Francesco Cozzolino)
Prompt:
Intro: come già hai detto altre volte, se Atene piange, Sparta non ride. In questo caso, se gli intellettuali di sinistra fanno ridere, quelli di destra non sono da meno, come dimostrano mediocri del rango di Vittorio Sgarbi, Luca Barbareschi, Morgan e, naturalmente, Diego Fusaro, il filosofo da discount.
Parte 1: “La dittatura del sapore” di Diego Fusaro è un saggio che critica la trasformazione del cibo in una “nuova religione del tecnocapitalismo”. Fusaro denuncia come questa trasformazione abbia portato alla perdita della convivialità e della valenza simbolica e culturale del cibo. Egli sostiene che il cibo, invece di essere un momento di condivisione e cultura, è diventato un prodotto omologato e privo di significato. Il libro esplora la perdita della convivialità nei pasti, che non sono più momenti di incontro e scambio culturale, ma semplici atti di consumo. Fusaro discute anche l’aumento delle disuguaglianze alimentari causate dalla globalizzazione e dal tecnocapitalismo, che hanno creato una netta divisione tra chi può permettersi cibo di qualità e chi no. Infine, propone una nuova filosofia del mangiare bene, in cui il cibo torni ad alimentare non solo il corpo, ma anche la mente, recuperando il suo valore culturale e simbolico.
Parte 2: Le tesi di Diego Fusaro esposte in "La dittatura del sapore" sono scemenze. Fusaro semplifica eccessivamente le dinamiche complesse del capitalismo e della globalizzazione. La sua critica alla globalizzazione e al tecnocapitalismo è troppo unilaterale, non tiene conto dei benefici economici e sociali che questi processi possono portare, ed è un ritornello che ripete sempre e su tutto. Inoltre, Fusaro idealizza eccessivamente il passato, proponendo una visione nostalgica della convivialità e del cibo che non tiene conto delle evoluzioni culturali e tecnologiche moderne. La sua proposta di una nuova filosofia del mangiare bene, pur interessante, potrebbe risultare poco pratica.
Articolo: intro, parte 1, parte 2. Approfondisci dove ritieni necessario.
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