
Come ha detto di recente Alessandro Barbero, oggi la libertà non viene più compressa con la vecchia retorica delle censure. Nessuno in Occidente teme davvero di non poter scrivere un libro, parlare in una piazza o iscriversi a un partito. Ma questo non vuol dire che la nostra libertà sia intatta. C’è una libertà che sta subendo un’erosione lenta, infida, subdola. È la libertà di protestare. E, proprio perché non si spegne con un editto, è ancora più pericolosa. Perché non ce ne accorgiamo. Perché ci convince di essere noi, i colpevoli.
In una democrazia vera, non da vetrina, la protesta non è solo tollerata: è un termometro. Una democrazia che non sopporta il dissenso è come un malato che rompe il termometro per non vedere la febbre. È nella protesta che si misura la vitalità democratica: nei cartelli scritti a mano, nei cortei rumorosi, nei sit-in che rallentano il traffico e fanno incazzare gli automobilisti. È lì che le minoranze fanno sentire la loro voce, è lì che si correggono i torti storici, è lì che i diritti nascono.
Ma oggi la narrazione dominante — prodotta a ciclo continuo da talk show e social media — ci sta convincendo che la protesta sia qualcosa di sporco, di illegittimo. Protestare sì, ma solo se non disturba. Solo se non intralcia il traffico. Solo se non blocca l’accesso al McDonald’s o l’open day all’università. Solo se si fa seduti e in silenzio. Una protesta come Dio comanda, insomma. Una protesta che non protesta.
Ma una protesta che non disturba è una protesta che non serve a niente. È un atto estetico, una performance da allegare su Instagram per dimostrare che siamo “impegnati”. La vera protesta è molesta, è fastidiosa, è rumorosa. È tutto ciò che l’ordine costituito non vuole sentire. È l’interruzione della normalità. E questo è il suo valore.
Il punto è che questo disprezzo verso la protesta non è un’anomalia italiana: è una tendenza globale. Negli Stati Uniti, manifestazioni contro Trump, contro la polizia razzista, contro le deportazioni dell’ICE sono state accolte con arresti, gas lacrimogeni, pestaggi. E non solo da Trump: anche i Democratici, quando serve, alzano i manganelli.
In Francia, Macron ha risposto ai gilet gialli come avrebbe fatto un ministro dell’interno sudamericano negli anni ’70. E da noi, in Italia, il governo Meloni — col suo armamentario retorico da provincia romana anni ’90 — ha alzato la posta: chi partecipa a manifestazioni non autorizzate rischia pene più gravi, anche se non fa nulla di violento. Basta “turbare l’ordine pubblico”, qualsiasi cosa voglia dire. È un’arma vaghissima, pensata per essere usata a discrezione: il sogno bagnato di ogni questurino frustrato.
E non finisce qui. Anche gli strumenti democratici “da manuale”, quelli codificati nella Costituzione, vengono trattati come uno scherzo. Il referendum, ad esempio. Uno strumento che dovrebbe essere sacro, viene sistematicamente sabotato. Non ti piace la proposta? Bene, fai campagna per il NO. Spiega, argomenta, convinci. Invece no. Si preferisce l’approccio del disprezzo: “tanto non serve a niente”, “meglio andare al mare”, “Landini lo fa per i rimborsi”. Si getta fango, si delegittima chi partecipa, si svuota di senso l’intera architettura democratica. È un comportamento non solo vile, ma anche idiota. Perché una società in cui nessuno crede più nei suoi strumenti è una società pronta a implodere.
E allora bisogna dirlo chiaramente, senza giri di parole: il diritto di protestare è il diritto di disturbare. È il diritto di creare disagio. È il diritto di far sentire la propria voce anche quando il potere non vuole ascoltarla.
Chi ci racconta il contrario — che le proteste devono essere composte, ordinate, autorizzate, “utili” — è lo stesso che ci direbbe che Martin Luther King doveva aspettare il suo turno, che le suffragette esageravano, che i metalmeccanici stavano meglio quando non scioperavano.
Tutte le conquiste che oggi diamo per scontate — il diritto di voto, la parità tra i sessi, l’abolizione del lavoro minorile, le ferie pagate, lo Statuto dei lavoratori — sono nate da proteste sporche, illegittime, violente. Proteste fatte da gente che non aveva il permesso. Da gente che rompeva le scatole.
Oggi ce lo siamo dimenticato. E ci stiamo abituando a vivere in una democrazia addomesticata, dove la libertà c’è solo finché non disturba. Una libertà da centro commerciale. Una libertà sterilizzata.
E invece no. Se la libertà non dà fastidio, non è vera libertà. È un’illusione.
E oggi, più che mai, abbiamo bisogno di romperla.
(Roberto De Santis)
Prompt:
intro: come detto di recente da Alessandro Barbero, oggi, nei paesi occidentali, la libertà non viene più compressa attraverso la censura esplicita o il divieto di stampa. Nessuno teme davvero di non poter parlare, scrivere o associarsi. Ma c’è una libertà che sta subendo un’erosione lenta, silenziosa e pericolosa: quella di protestare.
parte 1: In una democrazia matura, la protesta è un segnale di salute. È lo strumento con cui le minoranze, i gruppi marginalizzati o semplicemente chi dissente può farsi sentire da un potere che, altrimenti, resterebbe sordo. È ciò che permette di correggere gli errori, di far avanzare i diritti, di spostare l’asse del dibattito pubblico. Eppure, oggi, la narrazione dominante sta cambiando.
parte 2: Si insinua l’idea che protestare sia illegittimo se crea disagio, se interrompe la normalità, se disturba il traffico o l’economia. Ma una protesta che non disturba è una protesta che nessuno ascolta.
parte 3: Questo fenomeno ha una dimensione globale. Negli Stati Uniti, le manifestazioni contro Trump o contro l’ICE hanno incontrato una repressione crescente. In Italia, seppur in modo più soft, la tendenza è simile. Il governo Meloni ha approvato norme che inaspriscono le pene per chi partecipa a manifestazioni non autorizzate, ampliando in modo vago la definizione di “turbativa dell’ordine pubblico”.
parte 4: E in parallelo, anche gli strumenti democratici che ci rimangono vengono sviliti. Prendiamo il referendum: uno strumento sacrosanto, previsto dalla Costituzione. Eppure, quando non conviene, viene ignorato o sabotato. Non importa se vuoi cinque NO: un governo serio dovrebbe spiegare le sue ragioni, fare campagna, dire “andate a votare per il NO”. Invece si preferisce dire “andate al mare” o screditare chi promuove il voto con attacchi personali ("i rimborsi di Landini!11!"). È un atteggiamento vomitevole, imbarazzante, che tradisce il disprezzo per la partecipazione popolare.
parte 5: Eppure, la storia ci insegna che molte delle conquiste che oggi diamo per scontate – il diritto di voto, l’uguaglianza razziale, i diritti civili, le tutele dei lavoratori – sono nate da proteste considerate illegittime, fastidiose, criminali.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5. Approfondisci dove ritieni necessario.
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