Biancaneve: Autopsia di un Fallimento Annunciato

A distanza di qualche mese dall’ultimo articolo, torno a parlare del colossale fiasco targato Disney: il live action di Biancaneve. Nel frattempo ho avuto modo di osservare a freddo i numeri, leggere le reazioni, studiare l’onda lunga del dibattito. E mi è chiaro che dietro i 205 milioni di dollari incassati contro un budget di 410 non si nasconde solo un errore industriale. Si cela qualcosa di più profondo e sistemico: una frattura netta, irreversibile, nel rapporto simbolico tra la Disney e il suo pubblico. Una crepa nell’ecosistema mitologico più potente del Novecento.

Non è più solo una delusione: è rigetto

Le reazioni al film non si sono limitate alla delusione. Quello che si è visto è stato rigetto, sarcasmo, ostilità. E non solo nei confronti dell’attrice protagonista Rachel Zegler, diventata bersaglio facile per un’intervista sbagliata e una postura comunicativa da manuale su cosa non fare con una fanbase. No, il malessere è più ampio. Più viscerale.

Il pubblico ha percepito un tradimento. Biancaneve non è solo un prodotto: è un archetipo. E il film ha deciso di riscriverlo — male. L’estetica era incerta, il ritmo narrativo piatto, ma soprattutto le scelte simboliche hanno disorientato: i sette nani rimpiazzati da “magical companions” in un’accozzaglia di revisionismo e paura della polemica. Una mossa fatta per segnare un posizionamento valoriale preciso, ma che ha prodotto l’effetto contrario: spaesamento, distanza, freddezza. Il pubblico non ha visto un’innovazione, ma un’invasione.

L’inclusione non è il problema. L’incompetenza sì

Eppure l’inclusione può funzionare. L’ha già fatto. Mulan, La Principessa e il Ranocchio, Encanto, Coco: esempi chiari di come si possa allargare l’universo Disney senza mutilarne le fondamenta. Anche Maleficent, che pure riscrive radicalmente una fiaba classica, lo fa offrendo una nuova prospettiva, non una smentita.

Il pubblico, quando sente onestà narrativa, risponde. Ma quando annusa paternalismo, forzature, ideologia mascherata da innovazione, si ribella. Perché il vero problema non è l’etnia di Biancaneve, ma il fatto che la storia venga svuotata del suo simbolismo originario, riplasmata in funzione di un’agenda comunicativa senza anima.

Inclusione non vuol dire amputazione

La diversità funziona quando si innesta nel mito, non quando lo devasta. Il pubblico non è stupido. Capisce quando gli stai dicendo: “Quello in cui hai creduto da bambino era sbagliato”. E risponde con rabbia. Perché quel passato è parte della propria identità affettiva.

La vera inclusione non sostituisce, espande. Non ridicolizza i ricordi, li rilegge con rispetto. Non nega il passato, lo rielabora. Ma Biancaneve 2024 non rielabora nulla: taglia, censura, sostituisce. E lo fa con l’arroganza tipica di chi non sa di cosa sta parlando. Non è inclusione: è iconoclastia travestita da sensibilità.

Disney, svegliati: non sei più invincibile

Nel tentativo di modernizzarsi, la Disney ha fatto l’errore più grave: ha perso il polso del proprio pubblico. Ha imposto un nuovo linguaggio senza costruire un ponte con quello vecchio. E ha dimenticato una cosa fondamentale: i brand non sono contenitori vuoti da riempire con il trend del momento. Sono contratti simbolici. E se li violi, la fiducia si rompe.

L’inclusione, per funzionare davvero, deve essere empatica. Deve rispettare l’intelligenza e il cuore del pubblico. Non basta aggiornare i personaggi: bisogna accompagnare il cambiamento con senso, visione e rispetto. Biancaneve è stata trattata come una proprietà intellettuale da “correggere”. E il pubblico, giustamente, l’ha respinta come un corpo estraneo.

Il risultato? Un fallimento che non è solo commerciale. È culturale.

E come ogni crepa nel mito, non si rimargina facilmente.

(Giovanni Sarpi)

Prompt:

Intro: a distanza di qualche mese dall'ultimo articolo, torno a parlare di Biancaneve e del suo colossale fiasco, perché nel frattempo ho fatto qualche altra riflessione: dietro i numeri deludente al botteghino (205 milioni di dollari incassati contro un budget di 410) si nasconde qualcosa di più profondo: una frattura nel rapporto simbolico tra la Disney e il suo pubblico.

parte 1: Le reazioni al film non si sono limitate alla delusione: derisione e ostilità sono diventate dominanti, soprattutto sui social. Non si tratta solo di critiche all’attrice protagonista Rachel Zegler, ma di un malessere più ampio. Il pubblico sembra percepire un tradimento, una rottura con l’immaginario collettivo costruito in decenni di narrazione condivisa. Il film ha sofferto di scelte narrative poco convincenti, un’estetica incerta e modifiche simboliche significative, come la sostituzione dei sette nani con “magical companions”. Queste scelte, legate a un preciso posizionamento valoriale, hanno contribuito a una sensazione di spaesamento.

parte 2: Il dibattito pubblico si è rapidamente polarizzato: da un lato chi accusa ogni critica di essere reazionaria, dall’altro chi vede nell’inclusione una minaccia all’identità culturale. Ma la realtà è più complessa. Non si tratta di rifiuto della diversità, quanto di una frizione identitaria: il pubblico non rifiuta il nuovo, ma teme la cancellazione del vecchio. La Disney non è solo una casa di produzione: è un sistema mitologico. I suoi personaggi e le sue storie sono archetipi che hanno formato l’immaginario di intere generazioni. Quando questi archetipi vengono modificati in modo drastico, il pubblico non percepisce un aggiornamento, ma una profanazione.

parte 3: Eppure, l’inclusione può funzionare. Film come Mulan, La Principessa e il Ranocchio, Encanto e Coco hanno introdotto nuovi protagonisti e culture senza cancellare il passato, ma ampliando l’universo narrativo Disney. Anche Maleficent, pur riscrivendo una fiaba classica, ha offerto una nuova prospettiva senza negare l’originale.

parte 4: Il problema non è la diversità, ma la percezione che essa arrivi al posto di ciò che si amava, e non insieme. Quando il pubblico sente che i propri ricordi vengono ridicolizzati o invalidati, reagisce con difesa, rabbia e rifiuto. La vera inclusione non riscrive il mito: lo prolunga. Non condanna il passato, ma invita a espandere ciò che di esso è ancora vivo.

parte 5: Nel tentativo di modernizzarsi, la Disney ha forse dimenticato come accompagnare il proprio pubblico. Ha forzato un cambiamento di linguaggio senza costruire un ponte con l’immaginario collettivo. E così, invece di accoglienza, ha generato resistenza. Perché l’inclusione, per essere davvero efficace, deve essere anche empatica.

articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5.

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