
Per motivi anagrafici (e no, non li rifacciamo i conti: sono elegantemente millennial, grazie), non ho potuto vivere lo sbarco del wrestling in Italia. Sto parlando di quella prima, mitica invasione muscolare a metà degli anni ’80, quando i satelliti cominciavano a sputare immagini di uomini in calzamaglia urlanti direttamente nei salotti italiani. Un’epoca in cui un certo biondissimo signore, vestito di rosso e giallo come un panino da fast food, si impose come il volto di una rivoluzione culturale con un solo colpo: il leg drop.
Io sono figlia del wrestling anni Duemila, quello di Kurt Angle (e il suo collo di titanio), Triple H (con la lingua più lunga della sua carriera) ed Eddie Guerrero (rip, amore eterno). Il passato me lo sono dovuta recuperare con la stessa devozione con cui le mie amiche recuperano le stagioni di Sex and the City. VHS, YouTube, libri, e quelle notti insonni su forum americani dove si discuteva se fosse più forte Bret Hart o uno schiaffo dato bene.
Tutto questo per dire che no, non sono cresciuta con Hulk Hogan. Non ho mai posseduto una sua action figure e non ho mai fatto “Say your prayers and eat your vitamins”. Eppure, oggi, alla notizia della sua morte — inattesa, ma a pensarci bene mica tanto (ehi, parliamo pur sempre di un uomo che ha fatto suplex a 300 kg di carne viva per quarant’anni) — sento una strana tristezza.
Che cosa rende grande un wrestler?
La risposta più scontata è: i muscoli. E in effetti, per anni, la grandezza di un wrestler è stata quantificata in centimetri di bicipiti e litri di steroidi. Ma non basta. Se bastassero i muscoli, oggi parleremmo tutti del campione di panca piana della palestra di quartiere, e invece…
Un grande wrestler è un mito incarnato. È l’unione impossibile tra il gladiatore romano, l’attore shakespeariano e l’idraulico di provincia con la parlantina giusta. Deve essere larger than life, credibile mentre fa finta di morire su un ring e poi risorgere tre secondi dopo per vendicarsi. Un grande wrestler ti fa credere, almeno per mezz’ora, che il mondo si possa dividere in buoni e cattivi, e che la giustizia — magari con un colpo basso — vinca sempre.
E, come avrete già capito, Hulk Hogan era esattamente questo. Forse il primo. Sicuramente il più iconico. Ecco, l’icona: quella categoria astratta che sopravvive ai meme e alle cancellazioni culturali.
Vince McMahon, Hulk Hogan e l’invenzione del wrestling moderno
Immaginate gli anni ’80. Non quelli patinati da TikTok, ma quelli veri, con Reagan alla Casa Bianca, i capelli cotonati e la convinzione diffusa che il futuro fosse fatto di plastica e moralismo. Vince McMahon, il padre-padrone della WWE (quando ancora si chiamava WWF e nessuno si preoccupava dei panda), guardava un panorama pieno di federazioni locali, ciascuna col suo pubblico e i suoi campioni.
McMahon non voleva un’industria. Voleva un impero. E per costruire un impero serve un simbolo. Un Cesare. Un Mosè del bicipite. Lo trovò in Hulk Hogan: un omone già affermato in Giappone, che aveva un carisma da televendita religiosa e un look a metà tra Thor e un parcheggiatore di Miami Beach.
Il resto è storia. O meglio: la tempesta perfetta. WrestleMania, MTV, cartoni animati, action figure, il wrestling come fenomeno globale e culturale, l’uomo che solleva Andre the Giant davanti a 90.000 persone in delirio. In quel momento, l’inverosimile diventava realtà, e la realtà una barzelletta meno divertente del wrestling.
Nostalgia, revisionismo e l’ombra di Terry Bollea
Oggi veniamo sommersi da due tipi di post.
Il primo è il classicone: “Ero un bambino e lui era il mio eroe”. Condivisibile, dolce, magari anche sincero. Ma sempre un po’ stucchevole, come i biscotti che ti davano all’asilo.
Il secondo è il tribunale morale itinerante: “Sostenitore di Trump, razzista, misogino, meno male che è morto”.
Ecco, io non sono mai stata una Hulkamaniac. Gli ho sempre preferito Shawn Michaels, o Jeff Hardy quando sembrava il cugino punk di un angelo barocco. Ma se oggi il wrestling è quello spettacolo larger than life che ci fa ancora piangere come idioti di fronte a un turn heel ben fatto, lo dobbiamo anche a Hogan.
Sì, è stato un narcisista. Sì, è stato ipertrofico in tutto — muscoli, ego, frasi fatte. Sì, ha detto e fatto cose discutibili.
Ma c’è un punto che sfugge a molti: Hulk Hogan era un personaggio. L’uomo sotto, Terry Bollea, probabilmente era più grigio, più volgare, più patetico. Ma a noi ha parlato Hogan. Ha combattuto per noi, o contro di noi, a seconda delle storyline. Ha impersonato lo spirito americano più cafone e insieme il sogno di riscatto.
E sapete una cosa? È proprio questa assurdità — quest’inverosimiglianza teatrale, muscolare e patetica — che rende il wrestling il più grande spettacolo del mondo.
Hulk Hogan era un’esagerazione vivente. E per questo, forse, continuerà a vivere.
Brother.
Prompt:
Intro: per motivi anagrafici non ho potuto vivere lo sbarco del wrestling in Italia, una tappa della sua esplosione mondiale, negli anni '80. Sono figlia del wrestling anni '00, quello di Kurt Angle, HHH e Eddie Guerrero, e il passato me lo sono recuperato e studiato nel tempo. Tutto questo per dire che, pur non avendo vissuto l'era di Hulk Hogan, provo tristezza per la sua inattesa (a pensarci bene mica tanto) morte.
parte 1: cosa rende grande un wrestler?
parte 2: quando Vince McMahon, padre-padonre della WWE, stava cominciando la sua scalata e trasformando un fenomeno di settore in uno culturale di portata mondiale, o se preferite la più grande forma d'arte della storia, aveva bisogno di un vessillo, un simbolo; lo trovò in Hulk Hogan, al tempo già un veterano dei ring americani e giapponesi. Il resto è storia, o la tempesta perfetta.
parte 3: oggi veniamo sommersi da due tipi di post. Quelli nostalgici sull'idolo dell'infanzia e quelli su Hulk Hogan sostenitore di Donald Trump meno male che è morto. Io non posso definirmi un'hulkamaniac. Gli ho sempre preferito altri wrestler. Ma se il wrestling è diventato quello spettacolo larger than life che tanto amiamo, lo dobbiamo anche a lui. Sull'uomo gravano più luci che ombre? Vero. Ma mi piace pensare che quelle siano le ombre di Terry Bollea, l'uomo dietro la maschera.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3. Approfondisci dove ritieni necessario.
Assumendo la personalità di Margherita Nanni, scrivi un articolo brillante, divertente, colorito, senza moralismo, ma cogliendo il fascino dell'inverosimiglianza della vicenda.
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