
Sono tornata, finalmente. Da dove? Da Gaza. Non è la prima volta che ci sono andata, non sarà l’ultima. Me la sono vista brutta, per l’ennesima volta. Ne sono uscita, per l’ennesima volta. Certo, non lo consiglio. Certo, senza anni di contatti non ci arrivi, ed essere preparati ancora di più. Fatto sta che era il caso: a un certo punto devi sporcarti le mani, perché la verità non te la porta Amazon Prime, e la realtà sul campo non la ricavi da un thread di X.
Gaza, tra sopravvivenza e realtà sul campo
L’ultima settimana a Gaza si può sintetizzare in due parole: caos organizzato. Il territorio è un intrico di macerie, strade semi-distrutte e civili che cercano di sopravvivere tra razioni scarse e blackout continui. L’acqua potabile è un lusso, il cibo arriva col contagocce, e la corrente elettrica sembra un optional che si accende quando gli eventi lo permettono.
Le cliniche qui hanno un doppio cartello all’ingresso: “Pronto Soccorso” e “Tiro a Segno”. Non è un caso se vengono colpite di continuo: il trend è chiaro, e aggiungiamoci il fatto che Hamas usa alcune strutture sanitarie come base militare. Così le zone che dovrebbero salvare vite diventano coordinate di rischio, e curarsi diventa un privilegio, non un diritto. I numeri di morti e feriti – aggiornati dalle autorità sanitarie locali e dagli uffici umanitari – non sono semplici statistiche: sono la contabilità di un disastro in corso, numeri che ti lasciano senza fiato.
Il morale della popolazione oscilla tra rassegnazione e rabbia. Molti palestinesi vedono Hamas come un cappio al collo, mentre altri rimangono fedeli alla loro leadership militare, convinti che senza di loro non ci sarebbe più alcuna protezione. Dall’altra parte, i soldati israeliani parlano di Hamas come di una minaccia da annientare, con operazioni chirurgiche che non lasciano spazio a illusioni sulla “neutralità” del territorio. La guerra qui non è fatta di schemi tattici puliti, ma di sopravvivenza quotidiana, di scelte impossibili e di compromessi tra la vita e la logica militare.
La strategia israeliana
Israele gioca su più livelli. Non si tratta di colpire a caso, né di inseguire un’idea astratta di punizione. Ogni raid, ogni bombardamento, ogni incursione terrestre segue dati d’intelligence precisi: fotografie satellitari, intercettazioni, informatori locali. Hamas non è un nemico etereo: è una rete organizzata, con tunnel sotterranei, magazzini di armi e postazioni nei quartieri civili.
L’esercito israeliano adotta una logica chirurgica e brutale: ridurre al minimo le perdite proprie e massimizzare l’effetto sul nemico. Gli attacchi mirati ai vertici di Hamas, alle infrastrutture militari e ai tunnel non sono una scelta ideologica, ma tattica. La controparte umanitaria, ovviamente, soffre. Il confine tra civile e militare diventa labile quando la stessa organizzazione che combatte usa scuole, moschee e cliniche come basi operative.
Sul terreno, la guerra diventa una partita a scacchi con pedine vive: ogni civile ferito, ogni ospedale colpito, ogni edificio ridotto in macerie è contemporaneamente un danno collaterale e un’eco della strategia israeliana. E la comunicazione? Anche quella è parte della strategia. Israele mostra precisione, avverte di eventuali raid, documenta la propria logica difensiva. Il mondo, spesso, non vuole capire, preferendo gridare “assalto indiscriminato” senza entrare nel dettaglio.
Episodi sul campo
Qui la realtà diventa concreta e quasi fisica. Il primo episodio che ricordo è accaduto all’alba: un bombardamento mirato su una postazione di Hamas ha provocato un crollo parziale di un edificio civile adiacente. Ho visto una famiglia estrarre un bambino sotto le macerie con le mani nude, mentre sopra di noi piovevano ancora detriti. Nessuno ha gridato: c’era solo il silenzio della paura e della rapidità di decisione.
Un altro momento delicatissimo è stato lungo una strada principale: un convoglio umanitario stava passando quando sono arrivati colpi di mortaio a pochi metri. La polvere ti soffoca, i vetri esplodono, e in quell’attimo capisci che ogni passo può essere l’ultimo. Ho afferrato un ragazzo del convoglio e l’ho trascinato dietro un muro semi-crollato: il tempo rallenta e i secondi diventano eterni.
Infine, un episodio notturno che non dimenticherò: un edificio apparentemente abbandonato mostrava segnali di attività militare. Appena ci siamo avvicinati, è partito un fuoco automatico. Ci siamo riparati tra le macerie di un muro, calcolando ogni movimento, ogni respiro, ogni ombra. La paura non è sceneggiata, e il coraggio non è eroismo da film: è lucidità, prontezza e istinto.
Il valore di una vita
Secondo voi, una nazione non deve fare il possibile per salvare un proprio cittadino? È la logica del “no one left behind” che tanto vi commuove quando guardate Salvate il Soldato Ryan. Badate bene: è la stessa logica che spinge Israele a scatenare un’operazione militare gigantesca per liberare anche un singolo ostaggio. Piaccia o no, questo è uno Stato che dimostra ai propri cittadini che non saranno mai sacrificabili. E, se posso permettermi, è una logica che il vostro Stato dovrebbe applicare anche per salvare voi, invece di lasciarvi marcire in prigioni di mezzo mondo.
E sì, possiamo discutere di crimini di guerra — e Netanyahu e il suo governo dovranno risponderne — ma chiamare “genocidio” ciò che sta avvenendo è assurdo. Numeri alla mano, contesto alla mano, è un termine fuori luogo: la guerra è spietata, le responsabilità gravi, ma non c’è un piano di sterminio totale del popolo palestinese.
Lo stallo e la prospettiva
Il quadro a Gaza resta congelato in uno stallo strategico che nessuno sembra avere voglia o capacità di sciogliere. Da un lato, Israele deve considerare la liberazione degli ostaggi — una ventina, probabilmente già deceduti — e da questa logica discende l’intera sequenza delle operazioni. Ogni raid, ogni incursione terrestre, ogni tunnel distrutto viene calcolato in funzione di un unico obiettivo dichiarato: ridurre al minimo i rischi propri e massimizzare il colpo contro Hamas.
Dall’altro lato, c’è la popolazione civile, intrappolata tra la tattica militare e l’uso strategico che Hamas fa di scuole, cliniche e moschee come scudi operativi. L’equazione è brutale: più precisione nelle operazioni israeliane, più alta la probabilità di danni collaterali; meno precisione, più rischio che Hamas mantenga capacità operative letali. Ecco perché parlare di genocidio è semplicemente fuori luogo: non esiste un piano sistematico di sterminio, ma esistono scelte militari ferree, spietate e complesse, che qualcuno nel mondo guarda con moralismo da scrivania senza voler mai calpestare la polvere di Gaza.
La logica israeliana è chiara: colpire Hamas laddove è più vulnerabile, sfruttando l’intelligence e le operazioni chirurgiche, senza fermarsi al sentimentalismo dei titoli mediatici. L’obiettivo non è cancellare un popolo, ma neutralizzare un’organizzazione che da anni progetta attacchi e sfrutta civili come scudo. In questo scenario, il vero stallo non è militare, ma morale: ogni decisione comporta un prezzo umano, ogni pausa, ogni escalation, ogni scelta di tattica è scrutinata e contestata da chi osserva dall’esterno, comodamente seduto, senza mai rischiare un attimo di polvere, paura e responsabilità concreta.
Il rischio più grande è non distinguere la strategia dalla rabbia, la protezione dei cittadini dall’ideologia, e tornare a Gaza tra settimane o mesi a ricucire macerie e dolore senza alcuna progettualità politica. Lo stallo è tanto tecnico quanto morale, e ignorare una delle due dimensioni significa alimentare il disastro piuttosto che prevenirlo.
(Serena Russo)
Prompt:
Intro: Sono tornata, finalmente. Da dove? Da Gaza. Non è la prima volta che ci sono andata, non sarà l'ultima. Me la sono vista brutta, per l'ennesima volta. Ne sono uscita, per l'ennesima volta. Certo, non lo consiglio. Certo, senza avere anni di contatti aiuta, ed essere preparati ancora di più. Fatto sta che era il caso.
parte 1: un reportage che illustra la situazione dell'ultima settimana, focalizzandosi su alcuni aspetti, come la situazione umanitaria, i rifornimenti, gli scontri, il morale delle persone, come la popolazione palestinese vede Hamas e l'IDF e viceversa. parte 2a: racconto una serie di episodi osservati personalmente, con almeno uno davvero pericoloso.
parte 2: illustro ora la strategia portata avanti dall'esercito israeliano. parte 3: Secondo voi, una nazione non deve fare il possibile per salvare un proprio cittadino? E' la logica "no one left behind" che vi commuove tanto quando guardate "Salvate il Soldato Ryan", badate bene. Ed è una logica che ha conseguenze, e che il vostro stato dovrebbe usare anche per salvare voi.
parte 4: la situazione è uno stallo. Idea personale: con una ventina di ostaggi, probabilmente giù morti, Israele vuole dare il colpo di grazia definitivo ad Hamas e cancellarlo dalla faccia della terra. Un lavoro sporco che nessuno, nel mondo arabo, osa fare, ma di cui tutti godranno i frutti.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 2a, parte 3, parte 4; approfondisci dove necessario.
Scrivi un approfondito articolo, pure lungo, assumendo il ruolo di Serena Russo, tagliente, graffiante, ironico.
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