
Confesso che l’entusiasmo scatenato dalla Flottilla, le manifestazioni, la partecipazione dei giovani mi ha commosso — almeno da un punto di vista puramente istintivo. Non si vedeva qualcosa del genere, in Italia, da molto tempo: una mobilitazione vera, spontanea, viscerale. C’è stato un lampo di passione civile, un sentimento di appartenenza collettiva che, in altri tempi, avrebbe potuto essere il seme di un grande risveglio politico. Eppure, appena ci si ferma ad analizzare, l’amaro in bocca arriva puntuale. Perché l’entusiasmo, se non guidato dalla ragione, si trasforma presto in un grido cieco, e un grido cieco non costruisce nulla.
Il perseguimento di una pace vera nel conflitto israelo-palestinese esige la sconfitta simultanea degli estremismi che si alimentano a vicenda come gemelli siamesi. Da un lato il governo Netanyahu, ormai ostaggio della sua componente di estrema destra, convinto che sicurezza significhi espansione e punizione collettiva. Dall’altro Hamas, che ha fatto del martirio e della disperazione la propria ideologia di sopravvivenza politica, travestendo la barbarie da resistenza. Due fanatismi che si specchiano l’uno nell’altro, due estremi che legittimano le proprie atrocità indicandosi reciprocamente come il Male. Chiunque scelga di ignorare questa simmetria, per partito preso o per comodità ideologica, rinuncia a comprendere la sostanza stessa del conflitto. La loro sconfitta simultanea — non il trionfo di uno sull’altro — è il presupposto metodologico di qualsiasi politica che voglia chiamarsi ragionevole.
In questo scenario, paradossalmente, l’unico attore in grado di tamponare l’emorragia umanitaria sembra essere proprio quello che per decenni è stato il più ingombrante: gli Stati Uniti. E non è un caso che oggi, tra le pieghe delle diplomazie, il piano di pace più concreto — per quanto cinico — porti la firma del mondo arabo moderato, con Washington a fare da architrave. Sì, può darsi che l’interlocutore di turno sia Donald Trump, figura controversa, instabile, inaffidabile, ma il fatto stesso che molti paesi del Golfo si stiano muovendo su una linea comune dimostra quanto la situazione sia grave: persino il Qatar, che per anni ha giocato a proteggere Hamas e finanziare le sue derive, ha capito che non è nella posizione di sfilarsi. Nessuno muoverà un dito per difenderlo. E allora, ancora una volta, l’America — con tutte le sue contraddizioni — resta l’unico garante possibile di un equilibrio, seppur precario.

Mentre ciò accade, in Europa si respira tutt’altra aria. I cortei della Flottilla, nati con l’intento di richiamare l’attenzione sulla tragedia di Gaza, stanno degenerando in un campo di coltura per slogan tossici. La distinzione tra critica a Israele e antisemitismo si sta dissolvendo a una velocità spaventosa. Si vedono cartelli che inneggiano al 7 ottobre, cori che celebrano i massacri, bandiere che evocano più odio che solidarietà. È tornato, nei vicoli della politica europea, lo spettro di un’Europa Judenfrei, e ciò che lascia sbigottiti non è tanto la violenza dei fanatici, ma la connivenza degli ingenui. Ci sono studenti, professori, artisti, sindacalisti che sfilano accanto a simboli di puro odio etnico e si dicono “pacifisti”, come se il pacifismo potesse tollerare il genocidio purché venga commesso dal campo giusto. L’indecenza sta diventando un vezzo intellettuale. E chi osa denunciare l’antisemitismo, chi ricorda che gli ebrei non sono un’entità politica ma persone, viene accusato di strumentalizzare la memoria.
È questo il punto di rottura morale del nostro tempo: la perdita della capacità di distinguere. L’odio e il fanatismo inquinano ogni parola, ogni gesto, ogni discorso. Non è più possibile parlare di pace senza essere accusati di complicità, né di sicurezza senza essere bollati come guerrafondai. Abbiamo trasformato la discussione pubblica in una guerra di appartenenze.
L’unica via d’uscita, oggi, è tornare a distinguere. Tra religione e politica, tra memoria e propaganda, tra identità e ideologia. Serve un linguaggio del dialogo più fragile ma più autentico, che non abbia bisogno di un nemico per definirsi. È una speranza esigua, forse, ma è anche un dovere morale non spegnerla. Perché se la spegniamo, resterà solo il frastuono dei cori, e dietro i cori, come sempre, l’eco vuota della Storia che si ripete.
(Roberto De Santis)
Prompt:
intro: confesso che l'entusiasmo scatenato dalla Flottilla, le manifestazioni, la partecipazione dei giovani mi ha commosso - per lo meno da un lato puramente istintivo. Non si vedeva qualcosa del genere, in Italia, da molto tempo. Eppure, fermandoci ad analizzare le cose, l'amaro in bocca non tarda a farsi sentire.
parte 1: Il perseguimento di una pace vera nel conflitto israelo-palestinese richiede la sconfitta simultanea degli estremismi che si alimentano a vicenda: da un lato il governo Netanyahu, con la sua componente di estrema destra, e dall'altro Hamas, che non può essere romanticizzato come un movimento di resistenza legittimo. Questi due fanatismi rappresentano gli ostacoli primari alla soluzione del conflitto, e la loro sconfitta è il presupposto metodologico di ogni azione politica ragionevole.
parte 2: In questo contesto, il ruolo degli Stati Uniti appare, paradossalmente, come l'unico in grado di tamponare la crisi umanitaria, garantire il rilascio degli ostaggi e isolare Hamas, anche se questo significa affidarsi a una figura controversa, instabile, inaffidabile come Donald Trump, segno della gravità della situazione; gli stati del Golfo sembrano tutti concordare con il piano, e pure il Qatar ha capito che non è nella condizione di sfilarsi, perché nessuno muoverà un dito per aiutarlo.
parte 3: Intanto, in Europa, la retorica e gli slogan delle proteste stanno creando un'atmosfera pesante e pericolosa per le comunità ebraiche. La mancanza di distinzione tra critica a Israele e antisemitismo sta portando a cori, striscioni e cartelloni che inneggiano al 7 ottobre o utilizzano un linguaggio apertamente ostile agli ebrei, evocando l'inquietante spettro di un'Europa "Judenfrei" - atteggiamento che rende più che mai indispensabile l'esistenza di Israele. È sconvolgente notare la connivenza di chi, definendosi pacifista, marcia sotto questi simboli d'odio senza ripudiarli, minimizzando atti che, se rivolti ad altre minoranze, non sarebbero mai stati tollerati. Un comportamento umanamente decente richiederebbe di cacciare via questi elementi dai cortei, non di accusare chi segnala il problema di strumentalizzare l'antisemitismo.
parte 4: L'odio e il fanatismo stanno inquinando ogni parola e gesto. L'unica via d'uscita è recuperare la capacità di distinguere: tra religione e politica, tra memoria e propaganda, tra identità e ideologia. Solo da questo sforzo critico può nascere un linguaggio del dialogo più fragile ma più autentico, in cui non sia necessario un nemico per definire la propria identità. È una speranza esigua, ma è un dovere morale non spegnerla del tutto.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4. Approfondisco dove ritengo necessario.
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