
Sì lo so, oggi tutti parlano di Jannik Sinner, del tennis e — perché no — delle sue tasse, forse. Il Paese, come sempre, riesce a trasformare ogni vittoria sportiva in un referendum sul 730. A me, francamente, frega meno di zero. Ace Frehley è morto, e pure io non sto molto bene, per parafrasare.
Non perché io lo conoscessi, ovviamente — se l’avessi fatto, probabilmente gli avrei rubato la chitarra e un paio di battute da bar — ma perché con Ace muore un certo tipo di rock, quello spaccone, ingenuo, rumoroso e magnificamente ridicolo.
Lo Spaceman
Ace era il chitarrista storico dei Kiss.
E i Kiss, come ho già dichiarato senza vergogna (anzi, con orgoglio), sono la mia band preferita.
Non la più sofisticata, non la più profonda, ma la più dannatamente teatrale, e quindi la più vera.
Nel tempo altri chitarristi hanno preso il suo posto — persino più bravi, tecnicamente parlando — ma il sound migliore dei Kiss era quello con lo Spaceman, con la sua chitarra che sembrava decollare in orbita a ogni solo. Era una miscela di marzianità e garage, di fuoco d’artificio e ruggine.
I Kiss sono sempre stati così: un gruppo di sognatori americani che hanno preso la grandeur di Broadway e l’hanno fatta esplodere dentro un amplificatore Marshall. E Ace, con la sua Les Paul argentata e la faccia da ragazzino ubriaco di vita, era il motore a razzo di quel sogno.

Il matto della famiglia
Il mio Kiss preferito resta Paul Stanley — il frontman più melodrammatico della storia, metà gladiatore e metà parrucchiere — ma Ace era comunque uno della famiglia.
Quello più scapestrato, più fuori di testa, più “rockstar” nel senso preistorico del termine.
Ace non suonava come un virtuoso: suonava come un tipo che aveva trovato una chitarra in un vicolo e aveva deciso di farla urlare.
I suoi assoli erano tanto semplici quanto irresistibili, immersi nella tradizione di Chuck Berry e Gene Vincent, ma pompati con la brutalità di chi aveva visto un UFO e aveva deciso di imitarne il suono.
Quella semplicità geniale era il suo segreto. Ogni suo solo sembrava una canzone nella canzone, con un inizio, un’esplosione e una fine.
Era il contrario dell’esibizionismo tecnico che avrebbe infestato gli anni ’80: Ace suonava per il brivido, non per l’applauso.
Il miracolo dei primi Kiss
Chi non ha mai sentito un disco dei Kiss degli anni ’70, magari crede che fossero solo costumi di lattice e linguacce.
Errore.
I Kiss della prima fase erano una macchina perfettamente oliata di rock primitivo e soul urbano.
Sì, soul.
Perché dietro quei riff poderosi e quei cori da stadio c’era una sensibilità da Motown, un gusto per la melodia e per l’armonia che oggi non troveresti nemmeno con un metal detector.
Peter Criss, alla batteria, non picchiava: swingava.
Gene Simmons, basso e demone, faceva da ancora ritmica mentre Paul Stanley costruiva ponti melodici più puliti di un jingle pubblicitario.
E in mezzo, Ace.
A cucire tutto con quelle note storte ma perfette, con quel suono crudo e spigoloso, così americano da odorare di benzina e birra calda.
Era un equilibrio miracoloso: la brutalità e l’eleganza, la maschera e il cuore.

L’ultimo lampo
Ace mancava dai Kiss da anni — un’assenza lunga e turbolenta, dovuta alla sua ben nota inaffidabilità.
Droghe, risse, alieni, incidenti, leggende: la solita biografia del rocker vero.
Ma chi se ne importa.
Vederlo dal vivo nel 2022 è stato come incontrare un fantasma felice.
Aveva ancora quel ghigno malefico, quella posa sgangherata, e suonava con la stessa cattiveria di sempre.
Un uomo che aveva fatto pace con la propria leggenda e la indossava come una giacca di pelle un po’ troppo stretta, ma ancora bellissima.
I Kiss non sono da citare per sembrare intelligenti
Ed è proprio questo il punto.
I Kiss non saranno mai la band da citare per fare colpo a una cena con i redattori di Internazionale.
E, paradossalmente, è uno dei motivi per cui li amo tanto.
Perché i Kiss — e Ace più di tutti — incarnano la parte più onesta e inverosimile della cultura pop: quella che non pretende di essere profonda, ma finisce per esserlo lo stesso, proprio perché non ci prova.
Ace Frehley non era un genio nel senso accademico del termine.
Era un genio nel senso più puro: quello di chi trasforma il rumore in emozione, il caos in ritmo, la vita in un assolo di tre accordi.
Ci vediamo, Ace.
E, se davvero esistono altri mondi, spero che tu stia già suonando per un pubblico di marziani che finalmente capisce cosa intendevi quando dicevi di venire dallo spazio.
(Margherita Nanni)
Prompt:
Intro: sì lo so, oggi tutti parlano di Jannik Sinner e del tennis e delle sue tasse, forse. A me frega meno di zero. Ace Frehley è morto e pure io non sto molto bene, per parafrasare.
parte 1: Ace era il chitarrista storico dei Kiss, e i Kiss, come detto non troppo tempo fa, sono la mia band preferita. Altri chitarristi hanno preso il suo posto nel tempo, chitarristi persino più bravi, a voler vedere, ma il sound migliore dei Kiss era quello con lo Spaceman, e quindi...
parte 2: il mio Kiss preferito resta Paul Stanley, ma Ace era pur sempre uno della famiglia. Quello più scapestrato e fuori di testa. Quello che inventò assoli tanto semplici quanto spettacolari, immersi nella tradizione di Chuck Berry e Gene Vincent, scarnificati ed amplificati al massimo.
parte 3: i Kiss della prima fase della loro carriera si reggevano su una formula semplicissima e mostruosamente efficace. Tutti ricordano essenzialmente la facilità con cui scrivevano quei grandi ritornelli (più vicini al soul che alla british invasion, se uno ascoltasse con orecchie aperte) e il gusto per armonie pop; tutto giusto, ma senza evidenziare allo stesso modo il suono scarno e ruvido, quasi brutale, i riff poderosi, i groove inarrestabili della batteria, molto musicale, d Peter Criss, si perde di vista il quadro completo di una band unica.
parte 4: Ace si incastonava alla perfezione in tutto ciò, coi suoi assoli sempre al servizio della canzone, quasi una canzone nella canzone. Non faceva più parte dei Kiss da anni per la sua ben nota inaffidabilità. Che emozione però vederlo la vivo nel 2022, col suo ghigno malefico!
parte 5: i Kiss non saranno mai la band da citare per sembrare intellettuali. E' uno dei motivi per cui li amo tanto. Ci vediamo, Ace!
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5. Approfondisci dove ritieni necessario.
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