
Negli anni ’80, mentre l’Italia cercava di suturare le ferite delle stragi, dei depistaggi e delle “trame nere”, dall’altra parte dell’oceano il Brasile si risvegliava da una lunga notte di dittatura militare. Due Paesi lontani, ma accomunati da un identico demone: la paura del comunismo e il desiderio di ordine a qualsiasi prezzo. In Italia, la memoria era ancora fresca dei tentativi di colpo di Stato; in Brasile, l’esercito aveva governato per oltre vent’anni. Entrambi, a modo loro, diffidavano della democrazia come si diffida di un ospite scomodo: tollerato, ma mai davvero accettato.
Nel Paese sudamericano, le radici della destra radicale affondavano in un terreno molto particolare: l’Integralismo di Plínio Salgado, una sorta di fascismo in salsa cattolica e mistica, pieno di croci, rosari e retorica patriottica. Dopo la fine del regime militare, quelle idee non scomparvero: si ritirarono nei quartieri alti della gerarchia militare, nei seminari religiosi e persino nelle università. Non erano più la voce del potere, ma la sua eco, pronta a tornare in auge.
Intanto, in Italia, i neofascisti cercavano aria. Molti trovarono rifugio proprio in America Latina, e il Brasile divenne una delle loro mete preferite. Non tanto per ragioni politiche, quanto per una simpatia di fondo: un Paese che perdonava tutto, purché ti dichiarassi “anticomunista”. Alcuni italiani divennero consulenti, altri “accademici”, altri ancora semplici passatori d’idee. Le riviste brasiliane traducevano testi della Nouvelle Droite francese, ma citavano volentieri anche Evola e Del Noce, spesso fuori contesto, ma funzionali a un discorso: il caos è pericoloso, solo l’ordine salva. L’Italia, insomma, esportava più che uomini: esportava linguaggi, metodi, trucchi retorici.
È proprio nei metodi che l’influenza si fece sentire. La disinformazione elevata a scienza, il sospetto come strumento di controllo, l’uso del caos per invocare l’autorità. Negli archivi brasiliani compaiono nomi di italiani noti ai nostri servizi: conferenzieri, “esperti” di geopolitica, formatori militari. Nessuna rete strutturata, ma un passaparola di ferro. E dietro la facciata intellettuale, il solito gioco sporco: costruire consenso spingendo le masse a temere ciò che non capiscono. Una lezione che, purtroppo, il Brasile imparò bene.
Così, negli anni ’80, si formò la nuova destra brasiliana: meno divisa fra caserme e confessionali, più abile a usare i simboli della fede e della patria come armi politiche. Dove prima c’erano uniformi, arrivarono rosari; dove prima c’erano manganelli, apparvero crocifissi e Bibbie. Era una destra “civile”, almeno in apparenza, ma con un’anima militare ben nascosta. L’Italia, nel frattempo, faceva da laboratorio: qui si sperimentavano i linguaggi e le strategie comunicative che, decenni dopo, sarebbero state riprese da un ex capitano brasiliano deciso a “ripulire” il Paese. Bolsonaro non nasce dal nulla: nasce da un brodo culturale che parla anche italiano.
E oggi, il cerchio si chiude. La recentissima operazione di polizia a Rio de Janeiro, venduta ai media come l’ennesima “guerra al narcotraffico”, è in realtà un altro episodio di un film che conosciamo fin troppo bene. Dietro le retate e i comunicati ufficiali si muovono armi, traffici e uomini legati ai soliti apparati militari, protetti da un sistema politico che alterna prediche sull’ordine e pratiche da milizia.
Un copione vecchio, riscritto con colori tropicali ma nato altrove — nelle nostre sezioni, nei nostri circoli, nelle nostre università degli anni bui. Il Brasile osservò, imparò e aspettò. Ora che i tamburi dell’autoritarismo tornano a risuonare nelle favelas, sarebbe bene ricordare che non sono sempre importazioni esotiche: spesso, sono solo echi di suoni che abbiamo suonato noi.
(Ne parleremo più a fondo la prossima settimana: la storia del Brasile, purtroppo, continua a parlarci di noi.)
(Roberto De Santis)
Prompt:
intro: Negli anni ’80, mentre l’Italia cercava di superare le ferite delle stragi e delle trame nere, il Brasile usciva da una lunga dittatura militare. Nonostante le differenze, i due Paesi erano legati da un comune spirito anticomunista, autoritario e diffidente verso la democrazia. In Brasile, la destra radicale affondava le radici nell’Integralismo di Plínio Salgado, una forma di fascismo cattolico e mistico. Dopo la dittatura, queste idee sopravvissero in ambienti militari, religiosi e accademici.
parte 1: Contemporaneamente, in Italia, i neofascisti cercavano nuovi spazi, spesso rifugiandosi in America Latina. Alcuni si stabilirono in Brasile, contribuendo alla diffusione di idee autoritarie attraverso una rete informale di contatti, conferenze e pubblicazioni. Le riviste brasiliane traducevano testi della Nouvelle Droite europea, e i think tank conservatori citavano autori italiani. Non c’era un piano operativo comune, ma esisteva una rete ideologica e culturale condivisa.
parte 2: Questa influenza si manifestava soprattutto nei metodi: disinformazione, uso del caos per giustificare l’ordine, e costruzione di consenso autoritario. Negli archivi brasiliani compaiono nomi italiani legati all’estrema destra, spesso come consulenti o docenti. Più che persone, venivano esportati metodi e linguaggi.
parte 3: In quegli anni nacque la nuova destra brasiliana, meno militare e più ideologica, capace di usare religione, patriottismo e moralismo come strumenti politici. L’Italia fu un laboratorio: il Brasile osservò, imparò e attese. Quando decenni dopo un ex capitano salì al potere con retorica anticomunista, le basi erano già state poste negli anni ’80.
parte 4: e così ci ricolleghiamo alla recentissima operazione di polizia a Rio, presentata come lotta al narcotraffico, ma che in realtà nasconde dinamiche di traffico d’armi e autoritarismo, con il coinvolgimento di militari e gruppi locali. Una cosa che approfondiremo con altri articoli la prossima settimana.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4. Approfondisco dove ritengo necessario.
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