
Continuiamo a parlare di Brasile. Stavolta entra in gioco un think tank che oggi dovremmo conoscere più che bene: la Heritage Foundation. Era il 1981 quando pubblicò un rapporto sul Brasile, all’apparenza una semplice analisi geopolitica, ma in realtà un piccolo capolavoro di propaganda. Uno di quei testi che, letti a quarant’anni di distanza, fanno venire i brividi non per ciò che dicono apertamente, ma per tutto ciò che tacciono con cura chirurgica.
La dittatura che si fingeva “moderata”
All’epoca, il Brasile era sotto il controllo dei generali da quasi vent’anni. Un regime militare nato nel 1964, con il pretesto di “salvare la patria dal comunismo”. In realtà, un governo di ferro: censura, torture, desaparecidos, repressione sindacale, persecuzioni politiche. Un Paese dove chi criticava spariva e dove la paura era legge non scritta.
Eppure, nel rapporto della Heritage Foundation, di tutto questo non c’è traccia. I generali non erano carnefici, ma “amministratori illuminati”. Gli autori del documento – accademici, economisti, politologi di orientamento liberista – descrivevano il regime come un esempio virtuoso di pragmatismo politico. Scrivevano che il Brasile aveva imboccato “il percorso saggio verso la democrazia per evitare il caos”. In altre parole, il colpo di Stato del ’64 diventava una parentesi “necessaria”, una fase pedagogica in cui il Paese avrebbe imparato l’ordine, la disciplina, la crescita economica. La libertà, insomma, doveva passare prima attraverso la frusta.
L’“esperimento autoritario utile”
Il capolavoro semantico della propaganda era tutto lì. Non si parlava mai di “dittatura militare”, ma di experimento autoritário útil, un “esperimento autoritario utile”. Così il regime diventava un laboratorio di governance, un esperimento tecnico in cui l’autoritarismo veniva addolcito dal linguaggio dell’efficienza e della stabilità.
Le torture? “Eccessi occasionali”.
I desaparecidos? “Vittime della guerra ideologica”.
La censura? “Controllo dell’informazione per evitare il disordine”.
Nel frattempo, il documento celebrava la crescita economica del Paese, il cosiddetto “miracolo brasiliano”. Un’economia che cresceva a doppia cifra, sì, ma sulle spalle di milioni di poveri, di lavoratori privi di diritti, di un sistema che schiacciava ogni forma di opposizione. Niente sindacati, niente libertà di stampa, niente contraddittorio. Ma nel linguaggio della Heritage Foundation, questo si traduceva in “politiche di sviluppo sostenibile”.
Era la grammatica del potere che mutava pelle: non più manganelli e carri armati, ma stabilità macroeconomica e riforme strutturali. Il linguaggio della tecnocrazia al servizio dell’autoritarismo.
La morale del racconto
Il messaggio era chiarissimo: meglio un dittatore amico, efficiente e affidabile, che una democrazia instabile e difficile da controllare. Meglio un governo forte che un popolo disordinato.
Era, di fatto, una giustificazione morale dell’autoritarismo, purché allineato agli interessi del mercato e dell’Occidente.
Rileggere oggi quel rapporto è un esercizio salutare. Non solo perché ci ricorda quanto facilmente la violenza possa essere mascherata da competenza, ma anche perché ci mostra la continuità ideologica che ancora domina parte del pensiero conservatore contemporaneo.
La Heritage Foundation, non dimentichiamolo, è la stessa che oggi ispira buona parte dell’agenda politica della destra americana, da Trump in poi. Quella che parla di “ordine”, “sicurezza”, “famiglia” e “libertà economica”, ma che dietro questi paraventi continua a legittimare forme più o meno esplicite di controllo sociale e di repressione politica.
Il rapporto del 1981, in fondo, era un manuale su come far apparire l’autoritarismo come un male minore, anzi, come una forma avanzata di governance. Lì dove la paura veniva tradotta in “prudenza”, la censura in “moderazione”, la violenza in “razionalità economica”.
Echi nel presente
Quel modello – l’autoritarismo travestito da efficienza – non è mai scomparso. Ha solo cambiato lessico e target. Oggi non si presenta più con la divisa dei generali, ma con la giacca stirata del manager o la retorica seducente del “decisionismo”. È lo stesso schema che ammanta di efficienza la soppressione dei diritti, che chiama “riforma” ciò che è regressione, che usa la parola “stabilità” per giustificare la paura.
Lo vediamo in Brasile, dove il bolsonarismo non è nato dal nulla, ma è il frutto diretto di quella lunga pedagogia dell’autorità. Lo vediamo in Europa, dove leader e partiti spacciano la sicurezza per libertà, il controllo dei media per difesa della verità. Lo vediamo negli Stati Uniti, dove l’idea che un potere forte e centralizzato possa salvare la democrazia dalla sua stessa debolezza continua a trovare ascolto.
Il linguaggio della Heritage Foundation del 1981 non è morto. È entrato nel lessico politico quotidiano. Basta cambiare qualche parola: dove c’era “esperimento autoritario”, oggi leggiamo “democrazia illiberale”; dove c’era “stabilità economica”, oggi troviamo “responsabilità di governo”. Ma la sostanza è la stessa: un potere che si veste da buon senso per nascondere il suo disprezzo per la libertà.
E allora sì, guardiamoci intorno. Perché l’autoritarismo non arriva mai con il passo pesante dei carri armati. Arriva in giacca e cravatta, citando la crescita del PIL e la sicurezza nazionale. Arriva promettendo ordine, ma porta solo paura. Arriva parlando di efficienza, ma è sempre, in fondo, la stessa vecchia dittatura che si rifà il trucco davanti allo specchio della storia.
(Roberto De Santis)
Prompt:
intro: continuiamo a parlare di Brasile. Stavolta entra in gioco un think thank che oggi dovremmo conoscere più che bene: la Heritage Foundation, che Nel 1981 pubblicò un rapporto sul Brasile. Non era una semplice analisi, ma un capolavoro di propaganda.
parte 1: Il Paese era in mano ai generali da quasi 20 anni: censura, torture e repressione erano all'ordine del giorno. Eppure, il rapporto li dipingeva come saggi amministratori che avevano scelto "il percorso saggio verso la democrazia per evitare il caos".
parte 2: Come ci riuscivano? Chiamavano la dittatura un "esperimento autoritario" utile. La "transizione" non era la resa del regime, ma la sua vittoria. Ignoravano (o meglio, omettevano) del tutto torture e desaparecidos. Celebravano la crescita economica ("miracolo brasiliano") tacendo su povertà e repressione sindacale.
parte 3: Il messaggio era chiaro: meglio un dittatore amico e "efficiente" che una democrazia fragile. L'autoritarismo, se vestito con il linguaggio tecnico della "stabilità" e del "libero mercato", può sembrare buon governo. Rileggere oggi quel rapporto è fondamentale. Ci ricorda che la propensione all'autoritarismo non è sparita. Ha solo imparato a tradurre la forza in "stabilità", la censura in "ordine" e la paura in "politica economica razionale".
parte 4: Quel modello—l'autoritarismo travestito da efficienza—non ha mai smesso di cercare nuovi discepoli. Suona familiare? Guardiamoci intorno. articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4. Approfondisco dove ritengo necessario.
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