
Ci sono nostalgie che fanno tenerezza, come chi conserva ancora il diario delle medie o la maglia della prima squadra di calcetto. E poi c’è quella nostalgia lì: quella che dipinge l’Italia pre-UE come un’età dell’oro perduta, un paradiso smarrito per colpa di Bruxelles, degli eurocrati, del grande complotto cosmico contro la nostra presunta “sovranità”. Una nostalgia così ostinata, così impermeabile alla realtà, da diventare quasi patetica. E, mentre la ascolto ripetersi nelle chiacchiere da bar o nei comizi improvvisati in piazza, un dubbio mi tormenta: possibile che ci siamo scordati così in fretta com’eravamo davvero?
La favola che non c’era
È il sentimentalismo di chi rimpiange non la realtà, ma una favola. Una di quelle favole che, se raccontate ai bambini, li farebbero addormentare subito per quanto sono stonate.
Perché in quella narrazione zuccherosa, la svalutazione della lira diventa un’astuzia geniale, una mossa da prestigiatori della politica economica: puff, la moneta perde valore e, come per magia, le esportazioni volano. Peccato che a non volare fosse il potere d’acquisto delle famiglie, i risparmi faticosamente messi da parte, la stabilità dei salari.
Ricordo ancora le parole di mio nonno, uno che ha passato la vita in officina: “Ogni volta che svalutavano, era come se qualcuno mi rubasse qualcosa dal portafoglio, senza nemmeno chiedere permesso.” In quella frase c’è più economia che in cento comizi sovranisti.
E poi c’era la scala mobile, celebrata oggi come un gesto di generosità epica. Una mano santa, dicono. Una conquista sociale. Forse sì, in parte lo è stata. Ma a che prezzo? Quel meccanismo impazzito, quel motore sempre acceso, ha alimentato un debito che bruciava futuro molto prima che qualcuno lo chiamasse “crisi”. Era come firmare un assegno in bianco e lasciarlo sul tavolo, confidando che a pagarlo sarebbero stati altri, magari i nipoti. E infatti.
L’abbondanza a credito
I nostalgici si aggrappano con una tenerezza quasi commovente al ricordo di un “benessere” che oggi farebbe sorridere se non fosse tragico. Un benessere costruito su bisogni indotti, come il mito della vacanza obbligatoria a Rimini, il frigorifero nuovo ogni cinque anni e l’automobile di cilindrata sempre un po’ più grande, anche se poi si andava solo fino al supermercato sotto casa.
La produttività era un fantasma, la spesa pubblica un mantra, e i contributi versati non avevano nulla a che vedere con ciò che sarebbe tornato indietro. Ma intanto l’immagine del successo brillava: ponti dentali luccicanti come trofei di guerra, televisori a tubo catodico presi a rate come status symbol, e la sensazione che tutto fosse possibile perché tanto, in un modo o nell’altro, “lo Stato provvede”.
Peccato che anche quello fosse credito. Non metaforico: proprio debito. E il conto, prima o poi, arriva sempre. A noi è arrivato spesso sotto forma di austerità, tagli, riforme mancate e una generazione – la mia – che si è ritrovata a fare i conti con un mondo che prometteva meno di quanto avesse mai garantito ai suoi genitori.
Il baule delle illusioni
L’illusione più patetica, oggi, è pensare che smantellare l’Unione Europea sia come aprire un vecchio baule in soffitta e tirarne fuori, intatti, la lira, la pensione d’oro e persino Colpo Grosso.
Si immaginano un ritorno al passato come se fosse un interruttore da riaccendere, una pellicola da riavvolgere. Come se la storia – complicata, faticosa, scorticata com’è – potesse davvero essere riscritta.
Però quel baule, io lo immagino bene. Ci troverebbero sì le cartoline color seppia, quelle che danno calore al cuore e vendono bene nei post nostalgia su Facebook. Ma insieme a quelle, troverebbero anche le radici marce del debito pubblico che oggi ci strangola, le tracce fresche della fuga dei cervelli che da decenni impoverisce l’Italia, e un mercato globale che non guarda indietro, non fa sconti, non aspetta i romantici.
Nessuno lo dice mai, ma l’Italia degli anni Ottanta, con la lira ballerina e la spesa fuori controllo, in un mondo globalizzato sarebbe stata sbranata in sei mesi.
La vera tragedia
La vera tragedia non è che quell’età dell’oro non esista più. È che non sia mai esistita.
E costruire il futuro piangendo una fantasia non solo è sterile: è pericoloso. È un modo per autoassolversi, per evitare domande più serie. Perché è facile dire che “era meglio prima”: molto più difficile chiedersi come fare in modo che sia meglio domani.
E qui, permettetemi una nota che non sarà elegante, ma necessaria: i grandi cultori di questa nostalgia tossica coincidono spesso – guarda caso – con i filo-Trump, i filo-Putin, i paladini della democrazia autoritaria altrui.
Chissà perché. Forse perché certe favole si assomigliano: tutte semplici, tutte comode, tutte costruite per non far pensare troppo. E tutte, immancabilmente, false.
La realtà è che l’Europa non è un ostacolo: è uno specchio. E il problema non è ciò che ci impedisce di fare, ma ciò che ci costringe a vedere. Noi stessi, con tutti i nostri limiti, le nostre paure e le nostre occasioni mancate.
E allora forse, prima di rievocare un’età dell’oro mai esistita, dovremmo ripartire da una domanda più onesta:
che Italia vogliamo davvero costruire?
Perché di nostalgia non si campa. Di futuro, invece, sì.
(Giancarlo Salvetti)
Prompt:
Intro: C'è qualcosa di profondamente patetico in quella nostalgia che dipinge il passato pre-UE come un'età dell'oro perduta.
parte 1: È il sentimentalismo di chi rimpiange non la realtà, ma una favola. Una favola in cui la svalutazione della lira era un'astuzia geniale, non un furto silenzioso ai risparmiatori; in cui la scala mobile e il debito mostruoso che l'accompagnava erano generosità, non un assegno in bianco fatto firmare ai nipoti.
parte 2: Si aggrappano con tenerezza commovente al ricordo di un "benessere" costruito su bisogni indotti e su una produttività che non c'entrava con i contributi versati. Sognano ponti dentali luccicanti come trofei di un'epoca d'abbondanza, dimenticando che quella stessa abbondanza era a credito, e il conto è arrivato.
parte 3: È la patetica illusione di chi crede che smantellare l'Unione Europea sia come aprire un baule in soffitta e ritrovare, intatte, la lira, la pensione d'oro e persino "Colpo Grosso". Ignorando che in quel baule, insieme alle cartoline color seppia, troverebbero soprattutto le radici marce del debito e della fuga dei cervelli di oggi.
parte 4: La vera tragedia non è che quell'età dell'oro non esista più. È che non sia mai esistita. E costruire il futuro piangendo una fantasia è l'atteggiamento più sterile e, appunto, patetico che ci sia. Del resto questi nostalgici sono spesso filo-Trump e filo-Putin. Sarà un caso?
Articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4; approfondisci dove ritieni necessario.
Assumendo la personalità di Giancarlo Salvetti, scrivi un approfondito articolo dal tono tagliente, ironico e brillante. Rendilo immersivo.
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