Il dilemma della legittimità

C’è un momento, nella vita pubblica, in cui una scelta apparentemente tattica rivela molto più di quanto vorrebbe. È accaduto con l’intervista di Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina, concessa a Tucker Carlson. Un nome, quello di Carlson, che non è neutro e non lo è mai stato. Ex volto di punta di Fox News, oggi imprenditore di sé stesso nell’ecosistema digitale, Carlson è uno dei principali architetti di una destra americana populista, isolazionista, abilissima nel mascherare l’estremismo dietro il linguaggio mellifluo della “libertà di parola”. Le sue piattaforme non sono spazi di confronto: sono palcoscenici senza contraddittorio, costruiti per legittimare visioni del mondo che erodono, pezzo dopo pezzo, le fondamenta del discorso democratico.

Il punto, infatti, non è tanto ciò che Francesca Albanese ha detto, quanto dove e come ha scelto di dirlo. Accettare l’ospitalità di un megafono che da anni normalizza posizioni ai margini più tossici dello spettro politico – antisemitismo incluso, anche quando travestito da “domanda scomoda” – significa accettare di essere parte di quel meccanismo. È un’illusione pensare di poter usare certi canali senza esserne usati. Il mezzo non è mai neutro, e chi fa finta di dimenticarlo compie un atto di ingenuità politica che rasenta l’irresponsabilità. Nella corsa alla visibilità globale, si rischia di sacrificare l’autorevolezza, e con essa la forza morale della causa che si intende difendere. Il messaggio, così, arriva contaminato, avvelenato dal veicolo che lo trasporta.

Questo episodio, però, non è una caduta isolata. È il sintomo di una malattia più profonda che affligge la politica contemporanea, anche – e forse soprattutto – quella che si autodefinisce progressista. La riduzione della politica a performance individuale, a protagonismo narcisistico, a rincorsa spasmodica dell’attenzione. Quando l’ambizione personale e l’urgenza di “esserci” prendono il posto della strategia e della responsabilità collettiva, i filtri saltano. Si finisce per convincersi che qualsiasi vetrina sia utile, che ogni microfono valga l’altro. Si dimentica, colpevolmente, che esistono piattaforme che non si limitano a ospitare opinioni discutibili, ma lavorano attivamente per distruggere il terreno comune del discorso civile, quel terreno fragile su cui dovrebbero poggiare tutte le battaglie per i diritti, la giustizia, l’uguaglianza.

Per chi si riconosce in un campo progressista, la lezione dovrebbe essere antica e sempre nuova: rigore, coerenza, lungimiranza. Saper distinguere tra un confronto duro e un’agenda tossica. Comprendere che alcune alleanze tattiche, apparentemente furbe, sono in realtà rese strategiche. Perché legittimano proprio quelle forze che hanno come obiettivo dichiarato lo smantellamento dei principi che diciamo di voler difendere. Non tutto ciò che amplifica la voce rafforza la causa. A volte, la indebolisce in modo irreversibile.

E tuttavia sarebbe troppo semplice fermarsi al dito e ignorare la luna. Il problema ultimo non è Francesca Albanese, né il singolo scivolone. È il vuoto che si è creato intorno a lei. Figure come la sua emergono, e talvolta si muovono in modo discutibile, anche perché le istituzioni internazionali a cui appartengono appaiono sempre più deboli, opache, inefficaci. L’ONU, percepita come incapace di incidere realmente sulle grandi crisi del nostro tempo, lascia spazio a una politica della visibilità, in cui la credibilità istituzionale viene sostituita dal clamore mediatico. In questo vuoto prosperano i circhi, e nei circhi comandano i peggiori.

La sfida, allora, è duplice e scomoda. Pretendere coerenza e responsabilità da chi ci rappresenta, senza indulgenze amicali o giustificazioni pelose. Ma anche lavorare, con pazienza e ostinazione, per ricostruire istituzioni autorevoli, capaci di parlare al mondo senza dover bussare alle porte sbagliate. Perché quando la politica rinuncia alla propria dignità, qualcun altro è sempre pronto a occuparne il posto. E quasi mai lo fa per il bene comune.

(Roberto De Santis)

Prompt:

intro: L'evento che mi ha spinto a questa riflessione è la recente intervista di Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina, a Tucker Carlson. Carlson, ex volto di punta di Fox News ora attivista indipendente su piattaforme digitali, è una figura chiave di una destra americana populista e isolazionista, nota per offrire una piattaforma senza contraddittorio a posizioni spesso estreme.

parte 1: Il punto cruciale è il metodo e il contesto scelto per esprimerle. Accettare di essere strumentalizzati da un canale che sistematicamente normalizza idee ai margini estremi dello spettro politico, incluso l'antisemitismo, significa offrire legittimità a quel meccanismo stesso. È una mossa che, nella ricerca di visibilità, rischia di svuotare di autorevolezza la causa che si intende servire e di offuscare il messaggio con il veleno del veicolo che lo trasporta.

parte 2: Questo episodio, a mio avviso, è sintomo di un male più grande: la riduzione della politica a puro personalismo e protagonismo. Quando l'ambizione individuale, l'urgenza di apparire e l'ansia di amplificare il proprio messaggio a qualsiasi costo diventano la bussola, si perdono i filtri necessari. Si finisce per credere che qualsiasi piattaforma sia buona, dimenticando che alcune piattaforme operano attivamente per erodere il terreno comune del discorso civile e democratico su cui tutte le cause progressiste dovrebbero fondarsi.

parte 3: La lezione, per chi si riconosce in un campo progressista, dovrebbe essere di rigore e coerenza strategica. Significa avere la lungimiranza di distinguere tra un dibattito difficile e un'agenda tossica. Significa comprendere che alcune alleanze tattiche possono trasformarsi in una resa strategica, perché legittimano proprio quelle forze che si propongono di smantellare i principi di giustizia e uguaglianza che si affermano di voler difendere.

parte 4: Il problema ultimo, tuttavia, non è in una singola persona. Figure come la Albanese sono anche il sintomo del fallimento di istituzioni internazionali, come l'ONU, percepite come deboli e inefficaci. Quando le sedi istituzionali non riescono a dare risposte credibili, si crea uno spazio che viene riempito da logiche di pura visibilità e da attori in malafede. La sfida, quindi, è duplice: pretendere coerenza dai propri rappresentanti e lavorare per ricostruire istituzioni in grado di affrontare le crisi con autorevolezza, senza bisogno di ricorrere ai circhi mediatici.

articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4. Approfondisco dove ritengo necessario.

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