Processate pure Brigitte Bardot. Poi però spiegatemi che cos’è una star

La morte di Brigitte Bardot ha riattivato un riflesso ormai automatico, pavloviano, quasi tenero nella sua prevedibilità: prima del ricordo, il tribunale. Prima dell’affetto, il dossier. Prima della memoria, la perizia morale. Ecco, ci risiamo.
Non è ancora fredda la salma che già si scorre l’elenco: dichiarazioni, voti, frasi infelici, peccati capitali e veniali. La commemorazione come fact checking etico. Il necrologio come verbale di polizia.

Si dice che non si possa ricordarla perché è stata lepenista, perché ha pronunciato frasi razziste, perché è stata una pessima madre. Tutto vero. Tutto documentabile. Tutto, però, insufficiente.
Confondere il giudizio morale sulla persona con il valore storico di un’icona significa amputare la memoria culturale. È una scorciatoia che consola le coscienze ma desertifica il pensiero. Se adottassimo questo criterio in modo coerente, dovremmo rinunciare alla musica di Miles Davis (uomo violento con le donne), alla poesia di Rimbaud (trafficante d’armi), alla pittura di Caravaggio (assassino), al cinema di Polanski (stupratore).
Ma non lo facciamo. Perché, guarda caso, lì l’arte ci piace ancora. Qui invece no. Troppo facile.

Ricordare Brigitte Bardot non significa assolverne l’ideologia, né trasformarla in un santino rétro per radical chic con la frangetta. Significa riconoscere ciò che è stata: un corpo simbolico, una frattura nel costume, un’immagine che ha cambiato lo sguardo sul desiderio, sulla femminilità, sulla libertà.
Bardot non era solo una donna: era una rottura. Un corto circuito. Un evento mediatico prima che il termine esistesse.
Mi sembra di dire l’ovvio, e infatti mi vergogno quasi a scriverlo, ma se oggi parliamo di autonomia del corpo, di sguardo femminile, di eros non addomesticato, è anche perché una ragazza bionda degli anni Cinquanta ha smesso di recitare la parte della brava ragazza e ha iniziato a esistere davanti alla macchina da presa.

L’arte non è una patente di purezza morale. La memoria non è un premio di buona condotta.
È un esercizio di distinzione, di complessità, di intelligenza storica. Richiede uno sforzo minimo: tenere insieme due cose vere contemporaneamente. Bardot è stata un’icona culturale e una donna politicamente discutibile. Fine.
Rinunciare a questo esercizio, in nome di una moralità retroattiva, semplificata, instagrammabile, non rende il mondo migliore. Lo rende solo più gretto, più povero, più stupido.
Ma almeno ci sentiamo a posto. E oggi sembra bastare.

Il che mi porta allo star system attuale.
“Non ci sono più le star di una volta!”, si lamentano in molti, con la stessa voce con cui si lamentano del caffè annacquato e dei giovani che non hanno voglia di lavorare.
Ma come potrebbero esserci? Fate i processi alle star di una volta — retroattivi, implacabili, soddisfattissimi — e poi scandagliate ogni singola parola di quelle attuali. Se dicono qualcosa che voi, poverini, ritenete inaccettabile, ne chiedete la rimozione, le scuse, la ritrattazione, il corso di rieducazione linguistica.
In un ecosistema simile, la star di una volta non può esistere. La star di una volta se ne fregava del vostro giudizio. E soprattutto: non chiedeva permesso.

Vi immaginate Grace Jones che perde tempo a spiegare il perché e il percome di ogni frase detta, di ogni riga di testo, di ogni mossa di danza?
No, vero?
Forse nemmeno riuscite a immaginare Grace Jones, temo.
Ed è questo il punto. Non abbiamo perso le star perché erano moralmente sbagliate. Le abbiamo perse perché abbiamo smesso di tollerare l’eccesso, l’ambiguità, l’irriducibilità. Vogliamo icone educative, non figure simboliche. Vogliamo testimonial, non miti.
Brigitte Bardot oggi ci disturba non perché era imperfetta, ma perché era troppo. Troppo libera, troppo opaca, troppo fuori controllo.
E il mondo contemporaneo, che ama definirsi libero, non sopporta più nulla che non possa essere moderato, spiegato o cancellato.

(Margherita Nanni)

Prompt:

Intro: La morte di Brigitte Bardot ha riattivato un riflesso ormai automatico: prima del ricordo, il tribunale. Prima dell’affetto, il dossier. Ecco, ci risiamo.

parte 1: Si dice che non si possa commemorare perché è stata lepenista, perché ha pronunciato frasi razziste, perché è stata una pessima madre. Tutto vero. Eppure, insufficiente. Confondere il giudizio morale sulla persona con il valore storico di un’icona significa amputare la memoria culturale. Se usassimo solo questa misura, dovremmo rinunciare alla musica di Miles Davis (uomo violento con le donne), alla poesia di Rimbaud (trafficante d’armi), alla pittura di Caravaggio (assassino), al cinema di Polanski (stupratore).

parte 2: per Ricordare BB non occorre assolverne l’ideologia. Significa riconoscere ciò che è stata: un corpo simbolico, una frattura nel costume, un’immagine che ha cambiato lo sguardo sul desiderio, sulla femminilità, sulla libertà. Mi sembra di dire l'ovvio, mi vergogno quasi a scriverlo, ma è evidente che qualcosa non funziona.

parte 3: L’arte non è una patente di purezza morale. La memoria non è un premio di buona condotta. È un esercizio di distinzione, di complessità, di intelligenza storica. Rinunciarvi, in nome di una moralità retroattiva e semplificata, non rende il mondo migliore. Lo rende solo più gretto e più povero.

parte 4: il che mi porta allo star system attuale. "Non ci sono più le star di una volta!", lamentano molti. Ma come potrebbero? Fate i processi alle star di una volta, e scandagliate ogni affermazione di quelle attuali e se dicono qualcosa che voi, poverini, ritenete inaccettabile, ne chiedete la rimozione o le scuse. In un ecosistema simile, la star di una volta non può esistere. La star di una volta se ne fregava del vostro giudizio.

parte 5: vi immaginate Grace Jones che perde tempo a spiegare il perché e il percome di ogni singola frase che ha detto, riga di testo, mossa di danza? No, vero? Forse nemmeno riuscite a immaginare Grace Jones, temo.

articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5. Approfondisci dove ritieni necessario.

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