Poveri noi: La crisi della produttività in Italia

Nel libro Poveri noi, Alice Facchini tratteggia un’Italia inquietante e sempre meno eccezionale: un Paese dove anche chi guadagna 1.800 euro al mese, con un contratto a tempo indeterminato, può ritrovarsi in fila per un pacco alimentare. È il paradosso della povertà moderna: non è più riservata ai disoccupati o ai marginali, ma si è comodamente insediata nella vita di lavoratori regolari, istruiti e produttivi — o almeno, così speravano di essere. È come se avessimo rimosso la promessa implicita che un contratto stabile equivalga a una vita stabile. E invece no: basta un affitto troppo alto, un figlio con il raffreddore cronico, e l’assenza di una rete familiare, per trasformare un reddito dignitoso in una fonte di ansia continua.

Ma se vogliamo capire perché anche chi lavora non riesce più a “stare dentro”, dobbiamo guardare a un fenomeno che raramente affolla i talk show ma che rappresenta il vero convitato di pietra: la produttività.

Il peso morto della produttività

Il Rapporto Istat 2025 ha un tono che definirei… sobrio, ma solo perché l’Istat non ha la libertà stilistica per chiamare “disastro” una curva piatta. Secondo i dati, la produttività del lavoro e la produttività totale dei fattori (TFP) sono entrambe scese di oltre un punto percentuale nel biennio 2023-2024. Non è una novità. Da oltre un decennio la produttività italiana cresce al ritmo asfittico dello 0,7% annuo. Negli anni ’80 era il 2,5%. Un’altra epoca, un altro Paese.

La produttività non è un tecnicismo da economisti: è il motore stesso della nostra prosperità. Se non cresce, possiamo scegliere solo tra due opzioni:

  1. Far lavorare più persone (con stipendi stagnanti).
  2. Aumentare i prezzi (e perdere competitività).

L’effetto? Le aziende arrancano, gli investimenti si riducono e la crescita si spegne. La stagnazione produttiva è come una sabbia mobile: più ti agiti, più affondi.

Piccolo non è sempre bello

Tra le cause principali della bassa produttività italiana c’è la frammentazione estrema del nostro sistema produttivo. Siamo il Paese delle microimprese, dei laboratori artigianali, dei “ci penso io” e dei “si è sempre fatto così”. Questo modello ha garantito resilienza e creatività nel Dopoguerra, ma oggi si rivela un freno strutturale. Le imprese più grandi, infatti, sono anche quelle che investono di più in tecnologie, formazione, ricerca e internazionalizzazione. Non è una questione di romanticismo economico: è statistica industriale.

Non è solo una questione dimensionale, però. È anche di concorrenza. Le aziende che operano in mercati realmente competitivi – dove l’innovazione è premiata e il privilegio non protegge – tendono a migliorare i propri processi produttivi. Ma in Italia il mercato è spesso distorto da rendite di posizione, concessioni infinite, baronie professionali e lobby iperattive. Siamo un Paese dove si difende più volentieri la licenza che il merito.

Salari fermi, responsabilità confuse

La conseguenza più evidente? Salari reali fermi da un quarto di secolo. Un giovane laureato oggi entra nel mondo del lavoro con uno stipendio simile (in termini reali) a quello di suo padre nel 1980, ma con un affitto triplicato, nessuna casa di proprietà, e spesso senza un sindacato degno di questo nome. E attenzione: non si tratta di scelte sbagliate di politica monetaria o fiscale. La stagnazione della produttività è un problema strutturale, che riguarda l’efficienza con cui usiamo lavoro e capitale, non il colore delle banconote o l’ampiezza del deficit.

Il liberismo che non osa dire il suo nome

E qui arriviamo al punto dolente: l’unica via d’uscita richiede politiche economiche liberali, o se preferite ordoliberali — modelli che premiano la concorrenza, penalizzano le rendite, promuovono la crescita dimensionale delle imprese e liberano le energie individuali. Modelli, diciamolo chiaramente, che oggi non trovano cittadinanza in alcuna forza politica italiana. Né a destra né a sinistra.

Il nostro sistema economico è ancora imprigionato in una forma di capitalismo feudale-clientelare, dove i legami familiari, le protezioni corporative e l’intermediazione politica contano più delle competenze, delle idee e dei risultati. È un capitalismo che non osa competere, che preferisce negoziare sussidi, incentivi, deroghe, proroghe. Un capitalismo che chiede aiuto allo Stato ma rifiuta ogni standard di efficienza.

Una via possibile, ma scomoda

La strada da percorrere esiste, ma non è popolare. Richiede:

  • di incentivare la crescita dimensionale delle imprese attraverso un fisco che premi chi scala, non chi resta piccolo;
  • di liberalizzare mercati protetti e ridurre il peso normativo;
  • di investire seriamente in istruzione tecnica e digitale;
  • e, soprattutto, di rifiutare l’illusione che basti “più Stato” per ottenere più giustizia sociale.

Fermiamoci allora non per piangere, ma per riflettere: vogliamo davvero continuare a proteggere un sistema che produce povertà nonostante il lavoro? Oppure abbiamo finalmente il coraggio di costruire un modello produttivo che liberi le energie migliori del Paese, premi l’efficienza e valorizzi il merito?

Non servono miracoli, servono scelte. Ma come sempre in Italia, le scelte migliori sono quelle che nessuno vuole fare.

(Emma Nicheli)

Prompt:

Intro: Il libro "Poveri noi" di Alice Facchini esplora la crescente precarietà economica in Italia, evidenziando come anche un reddito stabile di 1800 euro e un contratto a tempo indeterminato non garantiscano più sicurezza finanziaria. Secondo i dati Istat, 5,7 milioni di persone (quasi il 10% della popolazione) vivono in povertà assoluta, con le famiglie con minori particolarmente vulnerabili. Oggi, molte persone che ricevono aiuti alimentari hanno un lavoro, ma il loro stipendio non è sufficiente per coprire i bisogni familiari. La mancanza di una casa di proprietà, figli piccoli e l’assenza di supporto familiare possono rendere 1600-1800 euro al mese insufficienti per vivere dignitosamente.

parte 1: Il Rapporto annuale 2025 dell'Istat evidenzia una situazione preoccupante per la produttività in Italia. Secondo i dati, la produttività del lavoro e la produttività totale dei fattori (TFP) sono diminuite di poco più di un punto percentuale sia nel 2023 che nel 2024. Guardando agli ultimi dieci anni, la TFP è cresciuta mediamente solo dello 0,7% annuo, un dato molto inferiore rispetto agli anni '80, quando la produttività aumentava del 2,5% annuo.

parte 2: La produttività misura quanto prodotto totale si genera in un'unità di tempo rispetto alla quantità di lavoro impiegata. Se la produttività non cresce, l'unico modo per aumentare il PIL è aumentare la quantità di lavoro utilizzata. Tuttavia, questo porta a un aumento dei costi, e se i prezzi non crescono proporzionalmente, i profitti delle aziende diminuiscono, causando una riduzione degli investimenti e una stagnazione economica.

parte 3: Il rapporto suggerisce due possibili soluzioni:
Dimensione d’impresa: Le aziende più grandi tendono ad avere una crescita della produttività più elevata rispetto alle piccole imprese.
Concorrenza: Le aziende che operano in mercati più concorrenziali investono maggiormente in nuove tecnologie, migliorando prodotti e processi produttivi.

parte 4: La stagnazione della produttività ha portato a una stasi dei salari reali e della produzione totale negli ultimi 25 anni. Senza un aumento della produttività, i salari reali devono rimanere fermi per evitare il fallimento delle imprese e il crollo dell’economia. Inoltre, il rapporto sottolinea che la crescita della produttività non dipende né dalla moneta né dai deficit pubblici, ma piuttosto dall’innovazione tecnologica e dalla concorrenza

parte 5: Secondo il rapporto, l’unico modo per rilanciare la produttività è attraverso politiche economiche basate su liberismo o ordoliberismo, modelli che attualmente non sono proposti da nessuna forza politica italiana. Senza un cambiamento strutturale, il futuro dei salari reali e dell’economia italiana rimane incerto.

parte 6: naturalmente, il mondo politico ed il corpo elettorale italiano sono i primi che si oppongono a tutto ciò, in nome della difesa del capitalismo feudale-clientelare che è nostra infelice caratteristica.

articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5, parte 6; approfondisci dove necessario.

Assumendo la personalità di Emma Nicheli, scrivi un articolo approfondito, con tono serio ma gradevole, non privo di una certa ironia.


Scopri di più da Le Argentee Teste D'Uovo

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

Lascia un commento