
L’ultima volta che ho visto David Thomas era il 2023, Bologna, una sera estiva che sembrava voler imitare Cleveland per noia e per umidità. Thomas era lì, su una sedia a rotelle, con l’aria di uno che ti guarda e pensa “tu non hai capito niente, e va benissimo così.” Sembrava stanco, sì, ma come sono stanchi i vulcani dopo un’eruzione: apparentemente quieti, ma ancora incandescenti sotto la superficie. Lo spettacolo? Surreale, disarticolato, sfuggente – in breve: un classico concerto dei Pere Ubu. Ora che se n’è andato, lo scorso 23 aprile, provo un dolore strano: quello che si prova quando muore una parte del proprio alfabeto sonoro. Con Thomas non se ne va solo un artista, ma un’intera modalità di percepire e raccontare la musica.
Perché no, i Pere Ubu non erano post-punk, proto-punk o avant-rock. Erano, se proprio vogliamo azzardare, anti-tutto. A Thomas le categorie stavano strette come un vestito di Zara a Captain Beefheart. La sua musica non si lasciava etichettare – non per snobismo, ma per legittima difesa. Era una specie di cabaret industriale, una jam session tra un radiodramma degli anni ’50 e un incubo di Philip K. Dick, un flusso musicale dove il popolare veniva smontato e rimontato come un Meccano impazzito. Ogni brano era un messaggio in codice, un dialogo trasversale tra generi, tempi e stati di coscienza. Altro che playlist “mood sad” su Spotify.
Thomas era un alchimista del significato. Prendeva frammenti sonori, cliché melodici, campionature di linguaggi in disuso e li trasformava in qualcosa che non si capiva subito – e spesso nemmeno dopo. Ma il punto non era “capire”, era sentire. Non raccontava la sua vita, non si rifugiava nell’egocentrismo da songwriter con la chitarra acustica e il trauma ben esposto. No, lui costruiva mondi. Storie in cui ci si poteva perdere senza il bisogno di GPS emotivi. Era convinto – con la tenacia di un predicatore eretico – che l’arte dovesse dire qualcosa, e che quel qualcosa avesse la priorità su tutto il resto: sul suono, sull’estetica, perfino sulla “bellezza”. Una visione che oggi, nell’era dell’algoritmo estetico, ha la forza di una bestemmia.
E a proposito di bestemmie: Thomas disprezzava il concetto di “novità” come valore in sé. L’idea che qualcosa valga solo perché “non si è mai sentito prima” lo faceva ridere – e non era un riso gentile. Per lui, l’innovazione era solo un’altra forma di conservatorismo, una gabbia dorata in cui chi si proclama “avanguardista” finisce per suonare come tutti gli altri presunti avanguardisti. L’etichetta “sperimentale”? Una barzelletta per musicologi in cerca di senso. Lo so, lo so: anch’io, da buon critico, ho abusato più volte di questi termini, credendo di illuminare il lettore quando invece confondevo le acque. Mea culpa. Ma ci voleva uno come Thomas – uno che sembrava uscito da un racconto di Ballard e che ti citava Sun Ra o Rocket from the Tombs con lo stesso tono – per farmelo notare.
Ecco, forse il suo lascito più grande non è musicale, ma filosofico: ci ha ricordato che la musica non è un catalogo da ordinare in scaffali, ma un linguaggio vivente, pieno di doppi fondi e significati nascosti. La sua eredità non si può liquidare con un elenco di influenze (“un po’ Beefheart, un po’ Can, un po’ dadaismo applicato”) e nemmeno con l’ennesimo articolo commemorativo scritto col tono compunto di chi vuole trasformare un fuorilegge in un’icona. Thomas non era un’icona. Era un virus culturale. Uno che infettava il concetto stesso di “musica popolare” con la sua visione dissacrante, ironica, potentemente umana.
Se oggi viviamo in un mondo musicale in cui tutto sembra derivare da qualcosa, dove l’unico vero rischio è quello di non piacere al pubblico giusto, allora la figura di David Thomas è quella del contravveleno. Un contravveleno rumoroso, incoerente, geniale. E forse è per questo che, anche se se n’è andato, continua a far rumore. Dentro le nostre teste. E nel mio caso, anche nel mio DNA musicale – quello che, per colpa sua, non riesce ad ascoltare una canzone senza chiedersi: “Ma che cazzo significa, davvero?”
E meno male.
(Luigi Colzi)
Prompt:
Intro: l'ultima volta che ho visto i Pere Ubu è stato nel 2023, a Bologna. David Thomas, affaticato e in sedie a rotelle, non sembrava passarsela molto bene, tuttavia ha dato vita ad uno spettacolo surreale e sui generis come sempre. Lo scorso 23 aprile David Thomas è morto - una notizia che mi ha molto addolorato, ma purtroppo non sorpreso. Con lui se ne va un pezzo del mio DNA musicale.
parte 1: Per lui, i generi musicali come new wave o post punk erano categorie limitanti, incapaci di descrivere appieno il loro lavoro. La band partecipava al flusso della musica popolare, costruendo un linguaggio ricco di riferimenti, dove nomi e titoli di canzoni creavano un dialogo continuo tra artisti e influenze culturali disparate.
parte 2: Thomas era un maestro nel rubare e ricontestualizzare elementi musicali, dando vita a un codice unico che si manifestava nei suoi album. Più che raccontare sé stesso, costruiva storie con significati universali, convinto che l’arte fosse una questione di espressione individuale, non di progresso lineare. Per lui, il significato era la priorità assoluta—più della qualità del suono o del successo commerciale.
parte 3: Thomas disprezzava l’idea di "novità" come valore estetico e rifiutava le etichette di avanguardia o sperimentale, considerandole obsolete e fuorvianti. Ed è questo forse il lascito "teorico" più grande e importante che ci lascia, in netta contrapposizione alla critica di questi termini si bea - e mi metto fra i colpevoli. Ci è voluta una mente geniale come quella di Thomas per avviare questa riflessione.
parte 4: la sua è Un’eredità che non può essere ridotta a un semplice elenco di influenze, ma che si manifesta nel continuo dialogo tra musica e significato
Articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4; esplora approfonditamente tutto quanto è emerso.
Assumendo la personalità di Luigi Colzi, scrivi un articolo, usando un tono sarcastico e arguto.
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