Civil War, Quella Senza Avengers (Forse)

Chi teme una guerra civile negli Stati Uniti dimentica un dettaglio piuttosto ingombrante: la democrazia americana è nata da una guerra civile. Non da quella del 1861, con fratelli contro fratelli e campi intrisi di sangue per l’abolizione della schiavitù, ma da quella del 1776 — una rivolta contro un potere lontano, arrogante e sordo. Gli americani non si sono mai limitati a chiedere gentilmente: hanno preso i fucili e si sono costruiti una repubblica sparando addosso al re. E se la storia, si sa, non si ripete mai uguale, a volte bussa alla porta con inquietante familiarità. Oggi lo fa con un ciuffo arancione, un social network personale e un seguito pronto a giurare fedeltà più che a un’idea, a un uomo.

Trump non è il problema. È il sintomo.

Donald Trump non è un monarca. È molto peggio: è un CEO della rabbia. Incarna il ritorno di un’autorità regressiva mascherata da democrazia. Un re travestito da reality show. Ma sarebbe un errore grossolano attribuire a lui tutta la responsabilità del disastro democratico americano. Il problema non è l’uomo, è il sistema che lo ha creato, nutrito e celebrato. È la viltà di chi ha preferito il silenzio alla verità, l’opportunismo al rischio, la poltrona alla dignità. È la passività di un popolo che si è fatto distrarre da talk show, armi e sconti del Black Friday mentre la Costituzione veniva smontata pezzo dopo pezzo.

Non è solo politica: è una questione di identità. L’America ha bisogno di rifondare sé stessa. Di riscrivere le sue regole. Di ricordarsi che “democrazia” non è una parola da usare nei discorsi del 4 luglio mentre si mangia hot dog, ma un patto fragile, vivo, che o si rinnova o si rompe.

L’incendio culturale è globale, anche se da noi brucia più piano

Chi pensa che questa tensione sia un’esclusiva americana non ha imparato nulla dalla storia. Anche nel 1964, quando gli studenti di Berkeley scesero in piazza, pochi avrebbero previsto che quell’onda sarebbe arrivata fino a Torino o a Parigi. Oggi si respira la stessa elettricità. La sensazione che qualcosa, qualcosa, debba accadere.

In Italia, il Sessantotto arrivò dopo anni di fermento. Oggi forse il tappo salterà prima, o forse salterà male. I disordini in California, le università occupate, le proteste per Gaza, per il clima, per l’inflazione, per l’ansia — tutto è sintomo dello stesso nodo irrisolto: un modello sociale che non regge più, e che nessuno ha il coraggio di buttare giù dal tavolo.

Con una differenza non da poco: allora c’era un popolo giovane e affamato. Oggi, un popolo vecchio e spaventato. Non parlo solo di rughe e badanti: parlo di mentalità. L’energia vitale di un’epoca si misura non dall’età anagrafica, ma dalla capacità di immaginare il futuro. E oggi, il futuro, fa paura.

La paura è bipartisan. Ma la rassegnazione è il vero nemico.

Intendiamoci: non tutti i vecchi sono spaventati. E non tutti gli spaventati sono vecchi. Ma la paura è diventata il carburante della nostra società. Si teme l’immigrato, il cambiamento climatico, l’intelligenza artificiale, la Cina, la NATO, il vicino di casa. Tutti hanno paura di qualcosa. Anche i giovani, che un tempo erano la miccia delle rivoluzioni, oggi sembrano più inclini all’attesa passiva che all’azione. È l’effetto anestetico di anni di precarietà, algoritmi, e senso d’impotenza sistemico.

Eppure, è proprio ora che serve una visione nuova. Una nuova forma di coraggio. Non quello muscolare delle bandiere e degli slogan, ma quello sottile, profondo, di chi decide di partecipare, di esporsi, di mettere in discussione non solo il potere, ma anche il proprio comodo disincanto.

Perché se è vero che “chi vive di paure vive male”, è anche vero che chi vota con la paura, vota peggio. E questo vale ovunque. A Washington come a Roma. A Houston come a Palermo.

La domanda non è se ci sarà una guerra civile. È se ci sarà una nuova Repubblica.

La guerra civile americana, quella vera, nacque per un ideale. Oggi rischiamo una guerra fredda intestina per difendere un simulacro. Ma attenzione: non tutte le rivoluzioni devono partire con i fucili. Alcune iniziano con una consapevolezza. Una presa di coscienza collettiva che non è più possibile andare avanti così.

Il punto è: siamo ancora capaci di ribellarci per un ideale? O siamo solo buoni a ribellarci quando finisce Netflix?

La storia, intanto, continua a bussare. La domanda è: chi aprirà la porta? E chi farà finta di non sentire?

(Serena Russo)

Prompt:

Intro: Chi teme una guerra civile negli Stati Uniti dimentica che la democrazia americana è nata proprio da una guerra civile. Non quella del 1861, ma quella del 1776: una rivolta contro un potere lontano e autoritario, un atto di coraggio collettivo che ha dato vita a una repubblica. Oggi, la storia sembra voler bussare di nuovo alla porta, ma con volti e contesti diversi.

parte 1: Donald Trump, per molti, incarna il ritorno di un’autorità monarchica mascherata da democrazia. Ma la vera minaccia non è solo un uomo: è il sistema che lo ha reso possibile. È la viltà di chi ha taciuto, l’opportunismo di chi ha collaborato, l’apatia di chi ha scelto di non vedere. In questo scenario, la posta in gioco non è solo politica, ma esistenziale: rifondare la democrazia, riscriverne le regole, restituirle un’anima.

parte 2: Questa tensione non è confinata agli Stati Uniti. Le prime crepe si avvertono ovunque. Come nel 1964, quando le proteste studentesche scoppiarono a Berkeley e si propagarono in tutto il mondo, anche oggi si percepisce un’energia latente, un’attesa che qualcosa debba accadere. In Italia, il ‘68 arrivò dopo anni di fermento. Oggi, forse, il tappo salterà prima, e i disordini californiani di questo giorno forse segnano un'innalzamento dell'asticella. Ma c’è una differenza sostanziale: allora c’era un popolo giovane e affamato, oggi un popolo vecchio e spaventato.

parte 3: Non tutti i vecchi sono spaventati, certo. E non tutti gli spaventati sono vecchi. Ma la stanchezza prevale, e la paura sembra aver contagiato anche i giovani. In un mondo che corre veloce, dove il futuro appare incerto e minaccioso, è difficile trovare l’entusiasmo e la fiducia necessari per ribaltare il tavolo. Eppure, è proprio questo che serve: una nuova energia, una nuova visione.

parte 4: Perché chi vive di paure, vive male. E vota peggio.

Articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4; approfondisci dove ritieni necessario.

Assumendo la personalità e lo stile di scrittura di Serena Russo, scrivi un articolo tagliente e brillante, con sarcasmo.


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