
Nel cuore pulsante del capitalismo italiano — quello che ama celebrare se stesso tra talk show, fiere dell’innovazione e convegni sul made in Italy — si nasconde una dinamica che grida ipocrisia. Un numero crescente di grandi patrimoni non si è costruito solo con l’innovazione o con la gloriosa manifattura italiana, ma anche, e soprattutto, con una chirurgica e strutturata ottimizzazione fiscale. Tradotto: spostare capitali e sedi legali all’estero per non pagare il giusto qui. Non evasione, sia chiaro. Ma quel raffinato gioco d’equilibrio tra norme, scappatoie e Paesi compiacenti che rende il sistema fiscale un colabrodo e lo Stato sociale un sogno a pagamento.
I tre re del patrimonio, ma col passaporto fiscale altrove
Prendiamo i tre uomini più ricchi d’Italia. Tutti imprenditori, certo. Ma chiamarlo solo successo aziendale è una favola che non regge più.
Giovanni Ferrero, con oltre 40 miliardi di euro, è l’erede di un impero dolciario che alimenta generazioni di italiani (e di conti offshore). La holding Ferrero International ha sede in Lussemburgo, mentre un altro pezzo del gruppo – legato al padre Michele – è registrato a Montecarlo. Non stiamo parlando di sedi di rappresentanza, ma del cuore giuridico e fiscale del colosso. Una struttura da manuale di fiscalità creativa, con scatole cinesi e holding annidate una dentro l’altra.
Poi c’è Andrea Pignataro, ex trader, fondatore di ION Group e terzo patrimonio d’Italia. Anche lui oltre quota 30 miliardi. Aveva un contenzioso fiscale da 1,2 miliardi con l’erario italiano. È riuscito a chiuderlo con un comodo pagamento rateizzato. Quanti di noi, comuni cittadini, possono “rateizzare” i propri debiti col fisco in miliardi, senza pignoramenti o visite dell’Agenzia?
Infine, Giancarlo Devasini, il meno noto ma forse il più emblematico della nuova economia. Ex medico, diventato miliardario grazie a BitFinex e Tether, due colossi delle criptovalute registrati in Isole Vergini Britanniche, Hong Kong ed El Salvador. Tre paradisi fiscali in uno. Qui non si parla più di impresa nazionale, ma di architetture finanziarie che operano su scala globale senza dover rispondere a nulla e a nessuno.
I grandi gruppi: la fuga continua
Non sono casi isolati.
La holding Delfin, che gestisce le fortune degli eredi Del Vecchio, è domiciliata a Gibilterra, mentre le sue partecipazioni spaziano tra Mediobanca, EssilorLuxottica e Generali.
Barilla International, controllata dalla omonima holding italiana, ha scelto Amsterdam.
La Ferrari, fiore all’occhiello dell’industria italiana, ha sede nei Paesi Bassi. Come pure Exor, la cassaforte della famiglia Agnelli-Elkann.
Questa fuga collettiva è un paradosso grottesco: le aziende si nutrono della reputazione italiana, del design, della manodopera qualificata, dei sussidi, delle infrastrutture pubbliche… ma quando si tratta di contribuire al bene comune, allora la nazione non esiste più. L’Italia serve per vendere e per assumere a basso costo. Ma per pagare le tasse, meglio Amsterdam, Montecarlo o Gibilterra.
L’impresa senza comunità: un capitalismo liquido, irresponsabile
Si può ancora parlare di economia nazionale, quando l’élite economica italiana si comporta come un club apolide?
Il problema è che l’impresa ha smesso di essere parte della società. Si è trasformata in un’entità votata esclusivamente alla rendita, guidata da manager e fondi che rispondono solo agli azionisti — non ai lavoratori, non ai territori, non alla collettività.
Oggi, in molte aziende e banche italiane, il capitale è controllato da fondi esteri che ragionano in termini trimestrali. Gli investimenti strutturali, la crescita della produttività, la formazione dei lavoratori sono diventati costi da contenere, non obiettivi. Il lavoro perde dignità, diventa variabile dipendente della logica finanziaria. Il valore umano scompare dietro il dividendo.
Le briciole di Bezos
Il caso di Jeff Bezos a Venezia è un simbolo tragico di questa logica. Per placare le polemiche sul suo matrimonio nella città lagunare, Bezos ha donato 3 milioni di euro. Una cifra ridicola in proporzione al suo patrimonio di 227 miliardi: l’equivalente di 50 centesimi per una persona con reddito medio.
Questo è il filantropo 2.0: un miliardario che sfrutta l’immagine della beneficenza per sedare il dissenso e neutralizzare ogni obiezione. Ma non è generosità, è marketing del privilegio. È l’illusione che problemi strutturali — come la crisi ambientale, la disuguaglianza, il degrado urbano — possano essere risolti da qualche spicciolo gettato dall’alto, come in un moderno feudalesimo high-tech.
I nuovi “robber barons” senza responsabilità
Almeno, i Robber Barons della Gilded Age americana – Carnegie, Rockefeller, Vanderbilt – avevano un’idea di legacy. Hanno costruito università, musei, biblioteche. Si sono posti il problema di cosa restasse dopo di loro.
I miliardari di oggi no. Sfruttano i territori, ottimizzano il fisco, accentrano profitti. Ma non lasciano nulla. Né sul piano infrastrutturale, né su quello culturale, né tantomeno su quello civile.
Viviamo in un capitalismo che non costruisce, ma accumula. Che non redistribuisce, ma protegge se stesso. Un capitalismo senza patria e senza morale, in cui la “decentralizzazione fiscale” è il nuovo patriottismo d’impresa e il lavoro un costo da ridurre.
E in questo scenario, lo Stato resta inerme. Anzi, spesso complice. Perché servono leggi più ferree, controlli internazionali, una lotta vera ai paradisi fiscali. Ma manca la volontà politica. Troppo spesso, chi dovrebbe difendere il bene pubblico si inchina al potere del capitale.
In un paese in cui chi ha di più dà sempre meno, la questione fiscale non è un tecnicismo: è una questione morale. E se la sinistra smette di dirlo — chi lo farà?
(Roberto De Santis)
Prompt:
intro: Nel cuore del capitalismo italiano si cela una dinamica che solleva interrogativi profondi sul senso di responsabilità sociale e sull’etica imprenditoriale. Un numero crescente di grandi patrimoni si è costruito non solo sull’innovazione o sulla produzione, ma anche — e soprattutto — su una sistematica ottimizzazione fiscale che porta le principali aziende italiane a stabilire le proprie sedi legali e fiscali in paradisi fiscali esteri.
parte 1: I tre uomini più ricchi d’Italia sono tutti imprenditori, ma le loro fortune raccontano una storia che va oltre il successo aziendale. Giovanni Ferrero, con un patrimonio superiore ai 40 miliardi di euro, guida un impero dolciario la cui holding, Ferrero International, ha sede in Lussemburgo. Un’altra società del gruppo, legata al padre Michele, è registrata a Montecarlo. Il gruppo è strutturato attraverso una rete di “scatole cinesi” fiscali. Andrea Pignataro, ex trader e fondatore di ION Group, possiede oltre 30 miliardi di euro. Ha avuto un contenzioso con il fisco italiano da 1,2 miliardi, chiuso con un pagamento rateizzato. Giancarlo Devasini, figura chiave nel mondo delle criptovalute, ha costruito la sua fortuna con BitFinex e Tether, società con sedi fiscali rispettivamente nelle Isole Vergini Britanniche, Hong Kong ed El Salvador — quest’ultimo noto per la sua fiscalità favorevole alle criptovalute.
parte 2: Il fenomeno non si limita a questi tre casi. Altri esempi illustri: Delfin, la holding degli eredi Del Vecchio, con partecipazioni in EssilorLuxottica, Mediobanca e Generali, ha sede fiscale a Gibilterra. Barilla International, controllata per l’85% da Barilla Holding, è registrata ad Amsterdam. Ferrari e la sua controllante Exor (famiglia Agnelli-Elkann) hanno sede legale nei Paesi Bassi.
parte 3: è possibile un’economia che prospera senza alcun senso di appartenenza alla comunità nazionale? A complicare ulteriormente il quadro, nelle imprese e nelle banche italiane si fa sempre più forte la presenza di grandi fondi finanziari internazionali, interessati principalmente ai rendimenti di breve periodo. Questo approccio mina la visione industriale di lungo termine e contribuisce a una crescente disconnessione tra impresa e lavoro, dove il valore del lavoro stesso viene oscurato dalla centralità del profitto e della distribuzione dei dividendi.
parte 4:Jeff Bezos, con un patrimonio di 227 miliardi di dollari, ha donato 3 milioni di euro per placare le proteste contro il suo matrimonio a Venezia. Una cifra che, in proporzione, equivale a una donazione di 50 centesimi da parte di una persona con un reddito medio. Un gesto che, più che generosità, rappresenta l’illusione di risolvere problemi collettivi con briciole di una ricchezza smisurata.
parte 5: un paragone coi cosiddetti "Robber Barons" della Gilded Age, che però si erano preoccupati di un lascito alla società.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5. Approfondisci dove ritieni necessario.
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