
Rivedere qualche giorno fa un gruppetto di vecchi compagni d’università — kefiah al collo, zainetto equo-solidale, e aria da eterni portatori sani di assemblee studentesche — mi ha fatto riflettere. Tutti sistemati, chi a insegnare educazione civica in qualche liceo di provincia, chi piazzato in qualche ente o municipalizzata, chi a lavorare a un ministero (rigorosamente con lo smart working del venerdì esteso anche al lunedì e al martedì). Li guardavo, e mi veniva da pensare a quanto poco fosse cambiato nel loro mondo interiore: gli stessi slogan, lo stesso sguardo indignato, la stessa allergia alla complessità. E intanto lo stipendio pubblico arriva sempre il 27.
Prendete tutto con le molle, naturalmente. Lo dico perché siamo in tempi delicati, dove basta un niente per essere scomunicati dal grande tribunale del Progresso. Ma certe cose, specie quando iniziano a puzzare di muffa ideologica, vanno dette.
Il terzomondismo, per esempio. Croce e delizia della sinistra globale nella seconda metà del Novecento. Un tempo era un’idea nobile: contrastare l’imperialismo e il colonialismo occidentale, dar voce ai popoli oppressi del Sud del mondo, costruire un nuovo ordine planetario meno ingiusto. Una visione dicotomica: da un lato gli sfruttatori, dall’altro gli sfruttati. Da una parte la borghesia bianca e capitalista, dall’altra i popoli che marciavano scalzi e fischiettavano “Hasta la victoria siempre”.
Ma già qui qualcosa non torna. Perché mentre da noi il marxismo classico cercava di mobilitare gli operai delle fabbriche, il terzomondismo scavalcava tutto e metteva al centro il popolo – parola magica, indefinita, liquida – e soprattutto la nazione, purché esotica e in fiamme. Non il proletario, ma il guerrigliero. Non la classe, ma il kalashnikov.
In altre parole: il motore della storia passava dalle tute blu alle divise mimetiche. E siccome il comunismo era l’unica ideologia disponibile per incanalare il disprezzo verso l’Occidente, ci si alleava con chiunque facesse saltare un ponte o sequestrasse un ambasciatore. La fine giustificava i mezzi, e i mezzi a volte puzzavano di cordite e processi sommari.
A sostenere questo impianto, due pilastri ideologici: il pauperismo e l’umanitarismo. Il primo divideva il mondo in maniera brutale: da un lato il 99% povero, moralmente integro; dall’altro l’1% ricco, moralmente decomposto. Uno schema semplice, perfetto per le magliette dell’UNICEF e le conferenze nei centri sociali. Il secondo, l’umanitarismo, trasformava la miseria in purezza: i poveri erano giusti per definizione, santi laici, mentre l’Occidente era colpevole anche quando distribuiva i vaccini. Una sorta di religione capovolta, con nuovi martiri, nuovi vangeli (scritti magari da Sartre o Fanon) e vecchi sensi di colpa coloniali elevati a dogma.
Quando poi le guerre di liberazione nazionale si sono esaurite — e con loro l’illusione che la rivoluzione fosse dietro l’angolo — molti non hanno fatto altro che cambiare i manifesti. Al posto di Che Guevara, lo sceicco barbuto; al posto delle brigate comuniste, le milizie islamiste. L’Occidente restava il Nemico, ma ora il compagno d’arme si chiamava Hassan, non più José. L’intellettuale francese Michel Foucault arrivò a sostenere che la rivoluzione iraniana fosse “la spiritualità politica in azione”: un filosofo illuminista che applaudiva chi impiccava gli omosessuali nei campi da calcio. Kafka impallidirebbe.
Il Corano divenne il nuovo Capitale. E a molti parve normale.
Oggi, il terzomondismo sopravvive come un disco rotto. Un certo mondo intellettuale, accademico, editoriale, continua a recitarne i versi come un rosario meccanico. Ma è un canto stanco, scollegato dalla realtà. La sinistra che ancora lo idolatra non ha più popolo, né progetto. Si aggrappa a riflessi ideologici, come un vecchio generale che disegna battaglie sulla mappa, ignorando che il fronte è crollato da tempo.
Eppure, qualcosa da salvare c’è. Non si butta via tutto. L’esperienza zapatista in Chiapas, ad esempio, ha saputo incarnare un terzomondismo autentico, radicato, non ideologico. È riuscita a difendere una comunità, una cultura, un’identità. Ha resistito senza trasformarsi in carne da museo per turisti radical chic.
Per il resto, è tempo di dire le cose come stanno. Siamo nati — sono nato — nel Nord del mondo. Non l’abbiamo scelto. Non è un merito, ma nemmeno una colpa. Il danno è stato fatto, questo è certo. Ma non si ripara fingendo che non esistano le differenze, o raccontando favole di redenzione collettiva. Piuttosto, proviamo a non ripetere gli errori. E smettiamola con questa malsana abitudine di tifare sempre per chi spara contro di noi.
Anche perché, a furia di sognare rivoluzioni in terre lontane, non ci siamo accorti che qui da noi, nel vecchio mondo, qualcuno ha già chiuso i rubinetti. E non basterà una kefiah per tenerci al caldo.
(Francesco Cozzolino)
Prompt:
intro: rivedere vecchi compagni d'università con la kefiah, tutti quanti insegnanti o impiegati di ministeri e aziende municipalizzate, mi ha scatenato qualche riflessione. Prendete tutto con le molle, naturalmente.
parte 1: Il terzomondismo è stato un elemento centrale della sinistra globale nella seconda metà del Novecento. Nato come risposta all’imperialismo e al colonialismo occidentale, ha rappresentato una visione del mondo fondata su una netta contrapposizione: da un lato l’Occidente sfruttatore, dall’altro il Sud globale depredato, protagonista delle lotte di liberazione nazionale.
parte 2: A differenza del marxismo classico, che individuava nel proletariato il motore del cambiamento, il terzomondismo spostava il focus sul popolo e sulla nazione. Le lotte anticoloniali erano viste come battaglie di liberazione nazionale, spesso armate, in cui il comunismo fungeva da guida ideologica e da alleato strategico.
parte 3: Il terzomondismo si fondava su due assi ideologici:
Pauperismo: il mondo diviso tra una massa povera (99%) e una ristretta élite ricca (1%).
Umanitarismo: una visione quasi religiosa, in cui i poveri sono moralmente superiori e l’Occidente è il male assoluto.
Questa lettura radicale si contrapponeva al riformismo occidentale, giudicato inefficace e compromesso con il capitalismo.
parte 4: Con il declino delle lotte di liberazione nazionale, una parte della sinistra ha continuato a usare lo schema terzomondista, sostituendo i movimenti comunisti con fondamentalismi religiosi. Il nemico restava l’Occidente, ma i protagonisti del cambiamento diventavano attori ben diversi: dai barbudos ai tagliagole. L’esempio emblematico è l’appoggio intellettuale di Foucault alla rivoluzione khomeinista in Iran. Il Corano è il nuovo Capitale.
parte 5: Oggi, il terzomondismo sopravvive in forme ideologiche e reazionarie, spesso scollegate dalla realtà storica e sociale. La sinistra che lo sostiene appare più legata a un riflesso ideologico che a un progetto politico concreto. il terzomondismo ha rappresentato un grande movimento sociale del Novecento. L’esperienza zapatista, ancora oggi attiva, è forse quella che meglio ha saputo conservarne l’eredità positiva.
parte 6: sono nato, siamo nati, nel Nord del Mondo. Non l'abbiamo deciso noi. Non è una colpa. Il danno fatto è fatto, semmai dobbiamo adoperarci per non ripeterlo.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5, parte 6; approfondisci dove ritieni necessario.
Assumendo l'identità di Francesco Cozzolino descritta sopra, scrivi un Articolo; usa un tono irriverente.
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