Pippo Baudo has left the building

E così pure Pippo Baudo has left the building. Non è solo una frase da necrologio, è un terremoto antropologico. Sai che prima o poi deve succedere – l’anagrafe non perdona – ma quando accade davvero hai la sensazione che abbiano staccato la spina a un lampadario che illuminava tutta la stanza. Pippo non era solo “un presentatore”: era il presentatore, e questa differenza semantica spiega bene la distanza che corre tra il professionismo d’altri tempi e l’improvvisazione odierna travestita da “autenticità social”.

Il gran cerimoniere

Baudo non conduceva uno show: lo officiava. Era il gran sacerdote del prime time, il garante della liturgia collettiva. Bastava un suo gesto, un sorriso calibrato, l’inflessione precisa su un nome per trasformare un’esibizione in un rito condiviso. Non presentava l’ospite, lo investiva di legittimità: se era Pippo a introdurlo, allora era qualcuno. E in quell’Italia che ancora si riconosceva nello stesso schermo catodico, la legittimità televisiva era legittimità nazionale.
Un Paese si specchiava in lui: dai Festival di Sanremo che diventavano più lunghi di un conclave, ai varietà in cui anche l’ospite “americano” doveva passare sotto il suo sguardo da doganiere della popolarità. Baudo non diceva “Buonasera”: diceva “Ecco, da qui inizia la festa, e siete tutti invitati”.

L’uomo dietro la maschera

Si dice che fosse un grande professionista. Non basta: era un maniaco della perfezione. Avendo lavorato con lui in più occasioni, posso garantire che non esisteva dettaglio troppo piccolo. Ricordo un episodio quasi grottesco: prove generali di un festival, tarda sera, la troupe allo stremo. Pippo ferma tutto perché il tempo di stacco tra un applauso finto e l’inizio della sigla non “respirava”. “Il pubblico a casa si annoia, deve poter sorridere mentre batte le mani. Rifacciamo”. Ore 23.45, e tutti giù a battere le mani ancora una volta.
Un’altra volta, in camerino, mi spiegò che persino il gesto con cui si consegna un microfono è parte integrante del racconto. “È un passaggio di testimone, non un arnese da dare in mano. Lo spettatore deve percepire che il palcoscenico è sempre un altare”. E io lì a pensare: oggi i ragazzi si filmano per tre ore con un cellulare in verticale e già si credono star.

Gli aneddoti “pipponi”

Eppure non era solo rigore. Sapeva scherzare, a modo suo. Una volta – era il periodo delle infinite gaffe del televoto – mi disse con aria furbesca: “In fondo il pubblico è come il pubblico da stadio: vuole credere di contare, ma poi la partita la decidono sempre i giocatori veri”. Cinismo puro, ma detto con quel sorriso complice che ti faceva ridere invece di indignarti.
Oppure il giorno in cui, stanco di una valletta che non azzeccava mai l’entrata, la prese da parte e le disse: “Ricordati, se sbagli tu, non perdi solo il lavoro. Perdi la mia pazienza. E fidati, è peggio”. Lì capii quanto fosse temuto e amato al tempo stesso: il padre-padrone della TV che, pur nel pugno di ferro, faceva crescere generazioni di professionisti.

Fine di un’era (e inizio del circo digitale)

E qui arriviamo alla parte dolente: cosa si chiude con Baudo? Non solo un’epoca televisiva, ma un’epoca antropologica. Quella in cui per essere famosi serviva qualcosa. Non per forza il talento di Mina o il genio di Villaggio: bastava anche solo saper reggere lo sguardo in camera, avere il portamento, la bellezza, la voce. Ma sempre un requisito c’era. Oggi invece viviamo nel regno della quantità: bastano tre milioni di follower e un algoritmo compiacente, e sei già “star”. Di che? Di niente.
Voglio essere cinico e cattivo: Baudo rappresentava il tempo in cui il palcoscenico era davvero un altare. Oggi è un ring light comprato su Amazon. La fama non è più un riconoscimento, è un accidente. Non richiede disciplina, né merito, né ossessione per il dettaglio. È la conseguenza di uno scroll fortunato.

Epilogo

Per questo il suo addio pesa. Non tanto e non solo per il gigante che se ne va, ma perché ci ricorda che una volta, in questo Paese, lo spettacolo era un patto con il pubblico: ti faccio divertire, ma ti rispetto. Pippo Baudo è stato l’ultimo a interpretare questa regola non scritta. Da oggi in poi, se cerchiamo un rito collettivo, dovremo accontentarci di un hashtag in tendenza.

E ditemi voi: non è una perdita ancora più grande?

(Luigi Colzi)

Prompt:

Intro: e così pure Pippo Baudo has left the building. Sono quelle cose che prima o poi devono succedere, ma poi quando succedono per davvero ti tramortiscono.

parte 1: Baudo non si limitava a presentare show; era il garante della loro importanza. Con la sua autorevolezza, trasformava il semplice intrattenimento in evento collettivo, e l'evento in esperienza sociale condivisa. Un suo sorriso, un annuncio, un gesto erano la soglia che elevava il flusso televisivo a rito moderno, in cui il Paese si specchiava e si ritrovava unito.

parte 2: La sua figura era quindi indispensabile: era colui che conferiva legittimità a ciò che accadeva in video. La sua scomparsa segna così la chiusura di un ciclo sia televisivo che antropologico, mettendo la parola fine a un'era in cui un'unica liturgia, trasmessa in prime time, poteva fare da collante a un'intera società. Un'era di cui Baudo è stato, indiscutibilmente, il gran sacerdote.

parte 3: si dice sempre che Pippo Baudo fosse un grande professionista. Avendo avuto occasione di lavorare con lui in diverse occasioni, posso dire che la fama era ampiamente meritata. Vi faccio qualche esempio di metodo. E qualche aneddoto personale.

parte 4: si chiude un'era. Ma quale? Voglio essere cinico e cattivo: l'era in cui, per essere famosi, era indispensabile avere qualche merito e saper fare qualcosa, fosse anche solo l'avvenenza fisica e guardare nella telecamera giusta al momento giusto. Gli influencer prendano nota.

Articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4; esplora approfonditamente tutto quanto è emerso.

Assumendo la personalità di Luigi Colzi, scrivi un articolo, usando un tono sarcastico e arguto. 

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