
Notizia di ieri: Israele lancia un’operazione militare, i Paesi arabi si indignano, si costernano, convocano ambasciatori e giurano che non la passeranno liscia. Poi, dopo i titoloni, tornano a guardare tutto dal terrazzo, con gran dignità e una tazza di tè in mano.
Quindici jet, cielo aperto
Per centrare obiettivi a Doha – sì, proprio in Qatar, il paese che da anni si è ritagliato il ruolo di “mediatore indispensabile” nel conflitto israelo-palestinese – l’aviazione israeliana non ha fatto ricorso a qualche operazione sotto copertura. Non ha mandato commandos travestiti da tecnici del gas. Ha semplicemente fatto decollare quindici caccia.
Quindici. Non uno, non due. E questi velivoli hanno sorvolato tranquillamente lo spazio aereo di Arabia Saudita e Giordania, come se stessero andando a una gita scolastica. La differenza è che anziché panini e bibite, portavano missili.
Radar in pausa caffè
Quella che poteva sembrare un’incursione rischiosa si è trasformata in un volo charter: nessun radar si è acceso, nessun caccia è decollato per intercettare, nessuna difesa è stata attivata. Niente. Solo il rombo dei motori che ha scosso i cieli sauditi e giordani, con i rispettivi governi impegnati, evidentemente, in faccende più urgenti.

La cosa non è da poco: Arabia Saudita e Giordania non sono compari minori. Si considerano i “custodi” del mondo arabo, spesso brandiscono il concetto di sovranità nazionale come fosse una clava. Ma quando davvero si è trattato di difenderla, hanno preferito non disturbare gli ospiti di passaggio.
Il festival dell’indignazione
Il giorno dopo, puntuale come le stagioni, è iniziata la parata delle dichiarazioni indignate. Il Qatar ha protestato con voce rotta, ma non troppo: difficile rinunciare al ruolo di mediatore che dà prestigio internazionale e accesso a stanze importanti.
Donald Trump, che ama avere l’ultima parola su tutto, si è lamentato: “mi hanno avvisato tardi”. L’Europa ha fatto eco, come sempre, con comunicati generici e incapaci di tradursi in azione. E persino Arabia Saudita e Giordania hanno alzato la voce: Bin Salman al telefono con l’emiro qatariota, il ministro giordano che parla di “aggressione brutale”.
Una “brutale aggressione” che avevano visto passare sopra i loro cieli senza muovere un dito.
La verità che nessuno dice
Ed eccoci al punto. Perché nessuno ha reagito? Perché non volevano. La verità, che tutti conoscono ma nessuno ammette in pubblico, è che se Hamas sparisce, va bene a tutti.
Hamas non è un simbolo della resistenza araba, ma un problema. Un attore incontrollabile che minaccia governi e alleanze. Un fattore di destabilizzazione che imbarazza proprio quei Paesi che, a parole, dovrebbero difenderlo.
E allora Israele fa il lavoro sporco. E gli altri, in silenzio, tirano un sospiro di sollievo. In pubblico recitano la parte dell’offesi. In privato, si comportano esattamente come Jeremy Clarkson nel meme: “Oh no! Anyway…”
La favola dell’unità araba
Ed è qui che la narrazione occidentale collassa. C’è chi continua a coltivare il mito di un mondo musulmano unito, solidale, pronto a reagire come un blocco unico contro Israele e l’Occidente. Una fantasia utile a molti: agli anti-imperialisti che vedono nel Medio Oriente la nuova avanguardia; ai nostalgici di un’epoca in cui “i popoli del Sud globale” sembravano uniti contro il nemico comune.
La realtà è molto meno poetica. L’universo arabo-musulmano è un mosaico di interessi, rivalità, equilibri fragili e paure concrete. Riyad sogna di diventare la nuova potenza globale del Golfo, Amman si gioca la stabilità ogni giorno, Doha difende il suo ruolo di hub diplomatico. E tutti, senza eccezioni, cercano di mantenere buoni rapporti con Washington, Pechino, Bruxelles, Mosca. Solidarietà sì, ma solo se non interferisce con i propri affari.
Sovranità da comunicato stampa
Alla fine resta una lezione dura: la sovranità non si difende con le dichiarazioni di condanna, ma con i radar accesi, le difese operative e soprattutto con il coraggio politico. Stavolta non si è visto nulla di tutto ciò. Solo un gran rumore mediatico, e poi il ritorno al business di sempre.
Israele ha dimostrato che può colpire ovunque, persino attraversando i cieli dei Paesi che più lo criticano. E i suoi vicini hanno dimostrato che possono condannare a parole, senza mai disturbare il manovratore.
Il risultato? La solita sceneggiata. Un Medio Oriente che si indigna con enfasi, ma si muove con prudenza. Dove tutti sanno benissimo che la fine di Hamas, alla lunga, conviene a più di qualcuno.
(Serena Russo)
Prompt:
Intro: Notizia di ieri: Israele lancia un’operazione militare, i Paesi arabi si indignano, si costernano, si impegnano… e poi guardano tutto dal terrazzo, con gran dignità.
parte 1: 15 caccia israeliani hanno sorvolato indisturbati Arabia Saudita e Giordania per colpire obiettivi in Qatar (ovvero: parte della leadership di Hamas), teoricamente mediatore nel conflitto. Un’azione di guerra vera e propria, non un’operazione segreta. Eppure, nessun radar ha reagito, nessun jet è decollato, nessuna difesa è stata attivata.
parte 2: Le condanne sono arrivate puntuali: il Qatar protesta ma non rinuncia al ruolo di mediatore, Trump dice di essere stato avvisato troppo tardi, l’Europa si unisce al coro, e anche Arabia Saudita e Giordania alzano la voce. Bin Salman telefona all’emiro qatariota, il ministro giordano parla di “aggressione brutale”. Ma la brutale aggressione l’hanno vista passare sopra casa loro, e non hanno mosso un dito.
parte 3: la verità che, se Hamas viene eliminata fino all'ultimo uomo, sono tutti contenti. E commentano questo attacco come potrebbe fare Jeremy Clarkson nel celebre meme: "Oh no! Anyway..."
parte 4: esiste quest'idea romantica di un mondo musulmano compatto e solidale, su cui proiettare le proprie fantasticherie di rivalsa anticapitalista. Quando vi accorgerete che non è affatto così?
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 2, parte 3, parte 4; approfondisci dove necessario. Scrivi un approfondito articolo, pure lungo, assumendo il ruolo di Serena Russo, tagliente, graffiante, ironico.
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