
Robert Heinlein sosteneva che la guerra è uno strumento tragico e brutale, ma talvolta necessario: non la si misura solo col conteggio dei cadaveri, ma con la bontà dell’obiettivo e l’assenza di alternative reali. Questa verità scomoda è oggi centrale, ma il dibattito pubblico ha un vizio: evita i nomi e si rifugia nelle astrazioni. Non è più tempo di eufemismi. Parliamo chiaro: il governo che guida l’operazione è quello di Benjamin Netanyahu; tra i ministri che spingono scelte estreme ci sono Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich; il ministero della Difesa è in capo a Israel Katz. Questi nomi non sono dettagli: sono attori che orientano scelte politiche concrete.
“La guerra è brutta perché muoiono i bambini”. Sì, ma è retorica — e la retorica non governa gli Stati.
Quella frase tocca le corde giuste, raccoglie like e lacrime, ma non sostituisce una strategia. La domanda che dobbiamo porci è meno consolatoria: se non si interviene, quale futuro stiamo scegliendo per i bambini di domani? Le risposte non sono ovvie e non si risolvono con slogan. La storia dimostra che a volte la rinuncia alla forza ha avuto un prezzo incalcolabile: non stiamo qui a romanticizzarlo o a usarlo come alibi, ma non possiamo ignorare la possibilità che, senza una risposta, emerga un male più grande.
Chi è Hamas e perché l’obiettivo non è banale
Hamas non è un partito che “sbaglia le politiche”; è, per come si è strutturato, un movimento armato e ideologico che mescola governo, rete sociale e componente militare. Questo non giustifica automaticamente qualsiasi risposta israeliana, ma cambia il quadro: esiste un obiettivo dichiarato — smantellare la capacità militare e l’apparato di Hamas — che molti sostengono sia necessario per interrompere cicli di attentati e atrocità. Affermazioni sul fatto che «si possa semplicemente negoziare» evitano di misurare la natura dell’avversario e le sue pratiche.
Il problema non è solo il numero di vittime: è la condotta politica che segue le armi
I numeri umanitari sono drammatici e vanno denunciati senza esitazione: ospedali collassati, centinaia di migliaia di sfollati, vite quotidiane distrutte. Ma se fermiamo la discussione al dolore—pur legittimo—rischiamo di non porre le domande decisive: l’obiettivo militare è proporzionato? Si sta facendo tutto il possibile per minimizzare le vittime civili? Se la risposta è no, allora la condotta statale è moralmente e politicamente indegna. Se la risposta è sì, allora bisogna dimostrarlo con operazioni, piani e numeri, non con slogan. Documenti e rapporti internazionali sul terreno certificano la gravità delle condizioni civili attuali.
Qui entrano in scena Ben-Gvir e Smotrich — e il problema smette di essere solo strategico per diventare etico e geopolitico
Non è un complotto oscuro: sono dichiarazioni pubbliche. Itamar Ben-Gvir — rientrato al centro del governo come ministro della Sicurezza Nazionale — ha pronunciato frasi e compiuto gesti che infiammano (visite provocatorie, rivendicazioni su Israele e territorio) e ha spinto per soluzioni di “espulsione” o trasferimenti che sono state condannate a livello internazionale. Bezalel Smotrich — ministro delle Finanze e voce forte del nazionalismo religioso — ha parlato di annessioni e di piani che ridisegnerebbero il territorio e la demografia, suggerendo una transizione che per molti osservatori profuma di “cambiamento forzoso”. Queste non sono opinioni da bar: sono politiche che, se tradotte in fatti, cambierebbero radicalmente il quadro e porrebbero l’azione militare fuori dalla soglia della legittimità internazionale.
E Netanyahu? È lui che ha l’ultima parola politica — e la responsabilità
Benjamin Netanyahu guida un governo che ha dato spazio — e potere — a forze il cui lessico include “annessione”, “trasferimento”, “smantellamento” dell’ordine precedente senza piani stabilizzanti credibili. Netanyahu parla di “finire il lavoro” e di rimuovere la minaccia rappresentata da Hamas; ma ha anche il compito fondamentale di tradurre la vittoria tattica in una strategia politica credibile per il dopo. Quando chi delega e decide favorisce o tollera ministri che evocano soluzioni di massa o annessioni, la responsabilità politica è chiara: il premier non può sottrarsi al nesso tra mezzi e fini.
Tre condizioni — rivisitate con i nomi sul tavolo
Se si vuole sostenere che una campagna militare contro Hamas sia giustificata, allora devono esserci evidenze concrete e verificabili che:
- L’obiettivo è legittimo — non un pretesto politico o demografico.
- Le operazioni sono progettate per minimizzare i danni ai civili — e questo va dimostrato con regole d’ingaggio stringenti e trasparenza.
- Esiste un piano praticabile per il “dopo” — con attori internazionali coinvolti per smilitarizzazione, governance transitoria e ricostruzione, non con slogan o proposte di “spostamento” della popolazione.
Se Netanyahu, il ministro della Difesa (Israel Katz) o altri nel gabinetto non possono o non vogliono dimostrare questi tre punti, allora la retorica della necessità si trasforma in alibi per politiche pericolose.
La responsabilità che non si scansa
Chi piange i bambini di Gaza e chi invoca il diritto di difendersi spesso si parlano addosso senza guardare chi, dentro il governo israeliano, sta pronunciando certe frasi e proponendo certe soluzioni. Non è un esercizio di puntare il dito per il gusto di farlo: è richiamare alla realtà politica. Nomi come Benjamin Netanyahu, Itamar Ben-Gvir, Bezalel Smotrich e Israel Katz sono centrali perché determinano scelte — e la loro responsabilità è pubblica.
Piangere le vittime è doveroso. Ma chiedere conto a chi decide e pretende di guidare il dopo è obbligatorio. Se non mettiamo i nomi sul tavolo, restiamo nell’indignazione rituale e non difendiamo né i civili né il futuro della regione.
(Serena Russo)
Prompt:
Intro: in "Fanteria dello Spazio", Robert Heinlein sostiene che la guerra sia uno strumento tragico, costoso, ma a volte necessario, la cui legittimità non si giudica sulla presenza di vittime civili (inevitabili), ma sulla bontà dell'obiettivo finale e sulla mancanza di alternative valide. Credo che si applichi benissimo alla situazione attuale.
parte 1: “La guerra è brutta perché muoiono i bambini”. È vero. È una verità straziante e ovvia. Ma è un ragionamento che, da solo, non serve a nulla. Anzi, ci impedisce di fare la domanda veramente difficile: e se non fare la guerra fosse peggio? La storia ci ha insegnato che a volte un male terribile serve a evitarne uno ancora più grande. Potevamo evitare i bombardamenti di Dresda? Sì. E avremmo lasciato Hitler al potere. Potevamo non distruggere il Fascismo? Sì. E non avremmo avuto la democrazia.
parte 2: In quelle situazioni, i bambini e i civili sarebbero morti comunque. Non sotto le bombe, ma nei campi di sterminio, per la repressione, per la fame. La differenza stava in QUALE futuro quelle morti avrebbero comprato. Oggi guardiamo a Gaza e la domanda è la stessa. Eliminare Hamas è un obiettivo che giustifica il prezzo? La mia risposta è sì. Hamas non è un attore politico con cui si può negoziare. È un'ideologia di morte che, se lasciata al potere, continuerà a causare sofferenze infinite sia a israeliani che a palestinesi.
parte 3: qui entra la cosa vergognosa. Il problema è che l'attuale governo israeliano non sta combattendo per una pace giusta. Sta combattendo una guerra senza una strategia chiara per il "dopo", con ministri che parlano di espulsioni di massa e annessioni. Così, i soldati israeliani muoiono invano, e i civili palestinesi muoiono invano.
parte 4: La vera discussione che dovremmo avere non è se sia giusto che muoiano dei bambini in guerra (non lo è mai, ma purtroppo è inevitabile). La discussione è: L'obiettivo vale il costo? Si sta facendo TUTTO il possibile per minimizzare le vittime innocenti? Si sta costruendo qualcosa di meglio alla fine? Senza queste risposte, non stiamo condannando la guerra. Stiamo solo condannando noi stessi all'impotenza.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4; approfondisco dove necessario.
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