La linea che nessuno vuole tracciare

Ci sono gesti che non si possono minimizzare. Non si può far finta di niente davanti a una sinagoga imbrattata. Non si può archiviare come “bravata” la targa di un bambino di due anni, Stefano Taché, ucciso dal terrorismo, insozzata di vernice nera. Non è un incidente periferico di cronaca: è un segnale cupo, inequivocabile. Racconta come, nelle pieghe del movimento pro-Palestina, stia crescendo un furore che ha perso ogni criterio di distinzione tra critica politica e aggressione simbolica a un’intera comunità. Quando il simbolo diventa bersaglio, la storia insegna, il resto arriva di conseguenza.

La scusa delle “frange”

La difesa è sempre la stessa, scolpita ormai nel marmo dell’autoassoluzione: “Sono frange, episodi isolati.” Una scusa che conosce solo un destino: consumarsi. Perché la realtà la smentisce, giorno dopo giorno, con la pazienza di chi non ha più nulla da dimostrare. Le frange estremiste prosperano quando il corpo centrale tace. E quel silenzio – inutile girarci intorno – troppo spesso sa di opportunismo. Non di prudenza. Chi non nomina il male quando lo vede, sperando che passi da solo, non fa che invitarlo a sedersi, a sistemarsi comodo, ad allargare il tavolo.

La maggioranza invisibile

Il punto non è – e non deve essere – accusare l’intero movimento di antisemitismo. Sarebbe un errore intellettuale e morale. Esistono, eccome, moltissime persone che sostengono la causa palestinese con rigore civile, onestà etica, lucidità politica. Ma ecco il guaio: non le si sente quasi più. O meglio: si sentono appena. Come ospiti discreti a una festa in cui a dettare il ritmo sono altri, più rabbiosi, più isterici, più urlanti. E apertamente antisemiti.

La maggioranza silenziosa è diventata una maggioranza muta. Né vista né ascoltata. E in politica, quando non parli, qualcun altro parla per te.

L’indignazione a geometria variabile

Qui sta il vero cortocircuito: l’indignazione selettiva. La solidarietà che scatta solo quando tocca il nostro recinto ideologico non è solidarietà, è tifoseria. E il tifoso – mi si perdoni la franchezza – non vede. Non vuole vedere. Accetta tutto, perfino l’inaccettabile, pur di sentirsi dentro la sua curva.

Per questo la violenza simbolica contro gli ebrei è un test. Un test di civiltà. Perché colpisce i morti, la memoria, i luoghi più fragili e sacri. Un movimento che non sa espellere questo veleno, presto o tardi, sarà avvelenato. Dai suoi stessi slogan. Dalla sua stessa furia. Dalla sua incapacità di dire: “Questo no.”

Chiamare le cose per nome

La responsabilità, oggi, non si esprime in formule prudenti come “derive preoccupanti”. Quella è la lingua dell’omissione. La responsabilità sta nel nominare le cose:
“Questo è antisemitismo.”
“Questo mi fa schifo.”

Serve una presa di posizione politica, pubblica, limpida. Senza “però”, senza acrobazie retoriche, senza il fantasma della “strumentalizzazione” evocato come scudo.

E vorrei dirlo con tutta la chiarezza possibile: non lasciate che siano Meloni, la Lega o il PD a farlo al posto vostro. Perché se saranno solo gli avversari politici a scandalizzarsi, allora la battaglia contro l’antisemitismo diventerà automaticamente sospetta. E non merita di esserlo.

Dovete essere voi, le migliaia di persone pacifiche che riempiono piazze e assemblee, a isolare queste minoranze tossiche. Devono sentire il vostro disprezzo. Dalla loro stessa parte.

La giustizia che si guarda allo specchio

Se la causa palestinese vuole restare una causa di giustizia – e ha tutte le carte per esserlo – deve sapersi difendere dal proprio interno. Deve dirlo forte: l’odio antiebraico non è un effetto collaterale, è un tradimento. Non è un’inevitabile sbavatura. È il confine oltre il quale tutto si sfalda.

Quel confine non lo tracciano coloro che odiano. Lo tracciano coloro che scelgono di non lasciarli parlare indisturbati. Perché il silenzio, nelle battaglie morali, non è mai neutrale: è un concime. E ciò che nutre cresce.

E quando cresce l’odio, il peggio non tarda mai.

(Roberto De Santis)

Prompt:

intro: Ci sono gesti che non si possono minimizzare. La sinagoga imbrattata, la targa di un bambino di due anni, Stefano Taché, ucciso dal terrorismo, insozzata di vernice nera. Non è un incidente marginale. È un segnale cupo. Racconta come nelle pieghe del movimento per la Palestina si stia facendo spazio un furore che non distingue più tra critica politica e aggressione simbolica a un’intera comunità.

parte 1: La difesa è sempre la stessa: “Sono frange, episodi isolati”. Ma questa linea, ripetuta come un disco rotto, ogni giorno suona più falsa. Le frange estremiste prosperano quando il corpo centrale tace. E troppo spesso, quel silenzio sa di opportunismo, non di prudenza.

parte 2: Il punto non è equiparare l’intero movimento all’antisemitismo. So che esistono moltissime persone che sostengono la causa palestinese con rigore civile e un’etica limpida. Persone che non hanno nulla a che fare con l’odio. Ma queste voci, pur essendo la maggioranza, oggi si sentono pochissimo. Sembrano ospiti discreti in un movimento che parla con altre voci, più squillanti, più rabbiose. Totalmente antisemite.

parte 3: E qui sta il problema: l’indignazione selettiva. Se la solidarietà ci commuove solo quando coincide con i nostri confini ideologici, allora non è più solidarietà. È tifoseria. E il tifoso, per definizione, non vede. Accetta anche l’inaccettabile, pur di confermare la sua appartenenza. Per questo la violenza simbolica contro gli ebrei – contro i loro luoghi, la loro storia, i loro morti – è un test. Un test di civiltà. Un movimento che non sa espellere questo veleno, prima o poi ne sarà avvelenato, tradendo i suoi stessi principi.

parte 4: La responsabilità oggi non sta in dichiarazioni generiche, ma nel nominare le cose con chiarezza. Dire: "Questo è antisemitismo, questo mi fa schifo". Non “una deriva scomoda”. Chiamare le cose per nome significa tracciare una linea. Vi chiedo una posizione politica. Pubblica, aperta, senza “però”. Siate voi, le migliaia di persone pacifiche, a prendere le distanze da questo orrore. A isolare queste minoranze. Non lasciatelo fare a Meloni, alla Lega o al PD. Devono sentire il vostro disprezzo, dalla loro stessa parte.

parte 5: Se la causa palestinese vuole restare una causa di giustizia, deve sapersi difendere anche dal proprio interno. Deve dire che l’odio antiebraico non è un effetto collaterale, ma un tradimento. Il confine non lo traccia chi odia, ma chi sceglie di non lasciarlo parlare indisturbato. Il silenzio prepara il peggio.

articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5. Approfondisco dove ritengo necessario.

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