
Avete presente i meme del vecchietto davanti al portatile che fa il segno “ok” dopo aver fatto qualcosa di incredibilmente stupido?
Ecco: se dovessimo scegliere un’immagine per rappresentare il rapporto dell’Italia con la sicurezza informatica, sarebbe quella. Uno di quei “boomer energy meme” che fanno ridere, finché non ti accorgi che sei tu, il tuo Comune, la tua banca, il tuo medico ad agire esattamente così. Con la stessa incoscienza sorridente.
La realtà, però, non è per nulla comica. I numeri del primo semestre sono una pietra tombale: l’Italia è tra i paesi più colpiti al mondo. Il 10% degli incidenti gravi globali avviene qui. Parliamo di danni medi da 300.000 euro a episodio, abbastanza da far saltare per aria una PMI in un pomeriggio. I nostri dati personali? Carne da macello. Oltre 8 italiani su 10 hanno informazioni in vendita nel dark web. Siamo il sesto paese al mondo per email compromesse (il prezzo varia: da 15 a 60 dollari, a seconda di cosa ci trovano dentro) e al ventiduesimo per carte di credito pronte per la clonazione. Insomma: siamo un outlet digitale per delinquenti internazionali.
Il paradosso è che continuiamo a regalare informazioni come fossero campioncini di profumo. Moduli chilometrici da compilare in Comune, app che ci chiedono dati che non servono a niente, aziende che non hanno la minima idea di cosa farsene ma li raccolgono lo stesso “per policy”. Risultato? Montagne di dati sensibili stipati in server configurati con la stessa cura con cui uno studente fuorisede richiude il sacchetto dei biscotti. E quando arrivano gli attaccanti – professionisti, organizzati, motivati – è un attimo: click, violazione completata, dati rivenduti. È un mercato illegale da miliardi, e noi siamo i fornitori involontari.
Il problema, però, non è solo tecnologico. È culturale. Da un lato c’è un cittadino medio che considera la cybersecurity un fastidio, una rottura. Password robuste? Due fattori? Backup? “Mah, poi vedo”. Come se stessimo parlando di cambiare la lampadina in garage, non di proteggere l’intera identità digitale. Dall’altro lato, ci sono istituzioni e aziende che dimostrano una leggerezza sconcertante. La sicurezza è vista come un costo, non come una condizione minima di sopravvivenza. E quando succede il disastro, ci si affretta a dire “attacco sofisticato”. Certo. Sofisticato quanto? A volte basta una mail di phishing scritta pure male.
E il quadro si completa con l’aspetto più inquietante: chi dovrebbe tutelare i nostri dati spesso non capisce nemmeno le regole del gioco. Funzionari che confondono privacy con burocrazia, dirigenti che firmano documenti sulla sicurezza come se fossero moduli per la mensa scolastica, responsabili che non hanno idea di come funzioni una rete ma devono “vigilare”. Se la sentinella dorme, non stupiamoci se il castello brucia.
La verità è semplice: non arriverà nessun salvatore. Nessun regolatore, nessuna legge, nessuna authority potrà proteggerci se noi per primi continuiamo a comportarci come nel meme del vecchietto col portatile. Nella cybersecurity, come nello sport o nel business, la prima linea di difesa è sempre la stessa: la consapevolezza.
Se non la prendiamo sul serio noi, non lo farà nessuno.
(Giovanni Sarpi)
Prompt:
intro: avete presente i meme del vecchietto davanti al portatile che fa il segno "ok" dopo aver fatto qualcosa di incredibilmente stupido? Sono molto rappresentativi, in realtà, del rapporto italiano con la sicurezza informatica.
parte 1: I numeri del primo semestre sono chiari: l'Italia è tra i paesi più colpiti al mondo. Con il 10% degli incidenti gravi globali e danni medi da 300.000 euro a episodio, la situazione è critica. I nostri dati personali, spesso sensibili, sono merce di scambio: oltre 8 italiani su 10 hanno informazioni in vendita nel dark web. Siamo al sesto posto per email compromesse (15-60 dollari l'una) e al ventiduesimo per carte di credito disponibili per clonazione.
parte 2: Paradossalmente, continuiamo a fornire informazioni personali in modo quasi automatico, a enti pubblici e privati, spesso senza una reale necessità. Questi dati, una volta raccolti, diventano facile preda degli attaccanti, alimentando un mercato illegale da miliardi di dollari.
parte 3: Il problema va oltre la tecnologia. Da un lato c'è una diffusa sottovalutazione del rischio da parte dei cittadini. Dall'altro, si registra un disinteresse preoccupante da parte di chi dovrebbe proteggere i nostri dati, sia nelle istituzioni che nel privato. È, in definitiva, una profonda questione culturale.
parte 4: Se persino chi è preposto alla tutela della privacy mostra di non comprenderne appieno i principi, non possiamo aspettarci un cambio di rotta. La nostra attenzione è la prima linea di difesa.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4.
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