
Sembrano lontanissimi, quasi archeologici, i tempi in cui la Russia era sinonimo di URSS, di blocco contrapposto, di nemico sistemico dell’Occidente e soprattutto degli Stati Uniti. Eppure la storia, quando non viene compresa, ama presentarsi sotto forma di farsa tragica. Oggi, nell’America di Donald Trump – e di ciò che ne resta come cultura politica – la Russia non è più l’avversario da contenere, ma il partner da “riconquistare” in funzione anticinese. Il resto del cosiddetto mondo libero? Un intralcio. Un fastidio. Un insieme di alleati con troppe regole, troppi diritti, troppa memoria. In questo scenario capovolto, due figure che a prima vista sembrerebbero agli antipodi diventano invece fari di un’ideologia sorprendentemente convergente. Alexander Dugin e J.D. Vance. Due mondi, un solo odore. Sinistro.
Leggere certe dichiarazioni di Alexander Dugin, spesso liquidato con superficialità come il “filosofo del Cremlino”, dovrebbe inquietare chiunque abbia ancora un minimo di alfabetizzazione storica. Perché Dugin non è un mattacchione folkloristico, né un eccentrico da talk show. È un ideologo organico, uno di quelli che Gramsci avrebbe riconosciuto al primo sguardo. La sua retorica oggi non è più confinata alle note a piè di pagina di testi esoterici e deliranti: è diventata linguaggio di guerra. Quando descrive l’Europa come una civiltà “degenerata” da “curare”, quando parla dell’aggressione come di una terapia necessaria, sta compiendo un’operazione antica e terribile: trasformare la violenza in atto morale. È lo stesso meccanismo che nel Novecento ha giustificato stermini, deportazioni, annientamenti culturali. Non siamo di fronte a una follia isolata, ma a una visione del mondo che oggi influenza concretamente una guerra nel cuore dell’Europa. Ignorarla significa collaborare.
Dall’altra parte dell’oceano, il volto è diverso, il linguaggio più pulito, la cravatta ben annodata. J.D. Vance non urla, non minaccia, non invoca carri armati. Ed è proprio questo a renderlo pericoloso. Il suo nazionalismo si presenta come una dottrina ordinata, quasi spirituale, intrisa di riferimenti religiosi e di una retorica della “comunità” che suona rassicurante a orecchie stanche. Ma sotto questa superficie levigata si nasconde un’operazione altrettanto radicale: trasformare l’isolazionismo in virtù morale, l’esclusione in destino, il risentimento sociale in disciplina collettiva. È una politica che prende il dolore reale di pezzi di società americana e lo riorienta verso un nemico comodo, interno o esterno, chiamandolo “patriottismo”. Non è fede, è teologia del potere. Non è conservatorismo, è regressione travestita da ordine.
Dugin e Vance non si parlano, probabilmente si disprezzerebbero. Eppure si assomigliano più di quanto entrambi vorrebbero ammettere. Perché condividono un presupposto fondamentale: l’idea che i diritti siano un lusso, che l’uguaglianza sia una minaccia, che la pluralità sia una malattia. Quando le idee arrivano a questo punto, smettono di essere innocue. Smettono di essere filosofia. Diventano progetti politici. Progetti che mirano a ridisegnare il mondo restringendo lo spazio dell’umano, decidendo chi ha diritto di esistere pienamente e chi no. Contro progetti del genere, il primo dovere non è la moderazione, ma la lucidità. Guardarli negli occhi, chiamarli per nome, senza cedere alla tentazione – sempre comoda – di sottovalutarli.
La parte più inquietante, però, non è né a Mosca né a Washington. È qui. È nel fatto che idee così apertamente illiberali risultino perfettamente accettabili a una fetta consistente degli italiani. Perché tanto “io mica sono negro, gay o musulmano, non ho nulla da temere”. È la frase più pericolosa del nostro tempo. È la rinuncia preventiva alla cittadinanza, la delega morale al potere. È l’illusione che i diritti siano un abbonamento personale e non una struttura collettiva. La storia insegna – ma evidentemente invano – che quando si comincia a togliere diritti agli altri, non si è mai davvero tra i “salvi”. Dugin e Vance prosperano su questa pigrizia morale, su questa indifferenza travestita da buonsenso. E se oggi ci sembrano lontani, domani potremmo ritrovarli tranquillamente tradotti, adattati, normalizzati. Magari applauditi. Perché le idee, quando trovano terreno fertile, non chiedono il permesso. Avanzano. E se non le si combatte sul piano culturale, prima o poi bussano alla porta della politica. E allora è sempre troppo tardi.
(Roberto De Santis)
Prompt:
intro: sembrano davvero lontanissimi i tempi in cui la Russia era sinonimo di URSS e di nemico dell'occidente in generale e degli USA in particolare. Oggi, per gli USA di Donald Trump, la Russia è un partner da riconquistare in ottica di contenimento cinese, il resto del mondo libero un ostacolo per gli affari. Due figure, apparentemente agli antipodi, sono fari di un'ideologia con diversi punti di contatto. Tutti sinistri.
parte 1: Leggere certe dichiarazioni di Alexander Dugin, spesso definito il "filosofo" del Cremlino, fa riflettere sul potere delle idee quando vengono messe al servizio del potere. La sua retorica non è più solo teoria: descrive l'Europa come una civiltà "degenerata" da "curare", trasformando l'aggressione in una necessità terapeutica. Quando l'ideologia smette di nascondersi dietro la diplomazia e parla apertamente di annientamento, dobbiamo ascoltare. Perché non è follia isolata, ma una visione che oggi influenza concretamente una guerra.
parte 2: Dall'altra parte dell'oceano, figure come J.D. Vance rappresentano un'altra forma di trasformazione della politica. Il suo nazionalismo si presenta con un volto ordinato e quasi spirituale, trasformando l'isolazionismo e l'esclusione in una "dottrina" benedetta. È un meccanismo potente: prende paure sociali e le trasforma in disciplina, chiamando "patriottismo" ciò che è spesso risentimento.
parte 3: Entrambi i casi, seppur diversi, ci ricordano che le idee non sono innocue. Quando minacciano l'esistenza stessa degli altri, quando disumanizzano intere civiltà o trasformano la difesa dei privilegi in una crociata, smettono di essere filosofia. Diventano progetti. E contro progetti del genere, il primo passo è guardarli negli occhi, senza cedere alla tentazione di sottovalutarli.
parte 4: Le idee di Dugin e Vance, pericolose e illiberali, sono in realtà accettabilissime per buona parte degli italiani, che tanto "io mica sono negro/gay/musulmano e non ho nulla da temere".
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4. Approfondisco dove ritengo necessario.
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