
Ha fatto un certo rumore, nei giorni scorsi, la storia di Giuliano Zamboni, piccolo imprenditore di San Pietro in Cariano, provincia veronese, proprietario dello storico Bar al Ciosàr, nome che in dialetto locale significa qualcosa come “Bar del Ragazzo Tosto”, ma che, a quanto pare, più che tosto è rimasto piuttosto indietro coi tempi.
Zamboni è finito al centro di una bufera social dopo che, durante un evento pubblico organizzato dalla proloco locale, ha lasciato intendere che “una volta qui non c’erano problemi, perché gli stranieri stavano a casa loro e i bar erano gestiti da veri italiani.”
Il video, girato da un ragazzo presente in piazza e caricato su TikTok, ha fatto il giro del web. Zamboni, intervistato il giorno dopo da un giornale locale, si è difeso così:
“Io razzista? Ma per carità! Ho pure assunto una ragazza africana! Viene dal Senegal, si chiama Amina, lavora benissimo, e al Bar al Ciosàr le vogliamo tutti bene. Io tratto tutti alla pari, basta che lavorano e non rubano.”
Una difesa che – lasciatemelo dire – sa più di foglio Excel che di etica. Ma procediamo con ordine.
Il razzismo non come odio, ma come mondo
Incontrare Giuliano Zamboni è un’esperienza che ricorda un po’ entrare in una commedia di Goldoni con le didascalie scritte da un boomer su Facebook. Uomo sulla settantina, visibilmente fiero del suo passato da barista d’altri tempi, amante delle granite alla menta, delle camicie a righe e delle metafore agricole.
Non è cattivo, nel senso classico del termine. Non ti urla “negro di m…” in mezzo alla strada e non ha nemmeno tatuaggi inneggianti al Terzo Reich. È quel tipo di persona che ti offre da bere mentre ti racconta una storia chiaramente problematica, convinto di star dicendo qualcosa di progressista.
Zamboni è un sintomo. Di cosa? Di un’Italia che non è mai diventata davvero multiculturale, ma ha imparato a usare la lingua del rispetto senza mai cambiarne la grammatica interna. Un’Italia che ti dice “io non ho nulla contro nessuno” mentre ti guarda come se tu dovessi continuamente dimostrare di meritare quel nulla.
Amina: vestita bene, trattata male
Amina, 22 anni, senegalese nata a Padova, lavora al Bar al Ciosàr da poco meno di un anno. La incontro nel retro del bar, in pausa, mentre smanetta sul telefono con un’aria tra l’annoiato e il rassegnato.
Mi dice:
“No, lui non è razzista. Cioè, non ti insulta, non ti tratta male. Però ti fa sentire come una bambina scema. Se sbaglio una comanda, ride. Se mi dimentico uno scontrino, mi dice che ‘sono africana, ma ce la posso fare.’”
Amina sorride, ma la voce è piatta. Mi racconta che, dopo il primo mese, Giuliano le ha chiesto di cambiare look.
“Mi ha detto che serviva un po’ di grinta al bar. Che i ragazzi non entrano più come una volta. E che ‘con quelle forme lì’ non era giusto tenerle nascoste.”
Minigonna nera, camicetta sbottonata. “Ti sta da Dio”, le avrebbe detto. Le altre cameriere? “Vestite come vogliono”, dice lei. “Al massimo, lui fa una battuta, ma non insiste.” Amina, invece, ha avuto la sensazione che non ci fosse scelta: o si adattava, o qualcun’altra avrebbe preso il suo posto.
Insomma, non è razzismo, direbbe Zamboni. È marketing.
La via italiana alla discriminazione: simpatica, paternalista, insidiosa
L’Italia ha questo dono sottile: riesce a essere discriminatoria in modo affettuoso. Non urla, non pesta, non mette muri evidenti. Ma fa spallucce. Ride. Tratta con condiscendenza. Ti chiama “tesoro” mentre ti chiede se sai usare il POS.
È un razzismo senza odio, ma non per questo innocuo. È più simile a un filtro seppia su un’immagine storta: rende tutto più dolce, ma non per questo giusto.
La vicenda di Zamboni non è solo una storiella provinciale da archiviare con una scrollata di spalle. È una piccola finestra su un modo di pensare che sopravvive nei bar di paese, nei pranzi della domenica, nelle pubblicità dove il nero sorride sempre, ma non parla mai.
Ed è proprio questa inconsapevolezza, questo paternalismo confuso con la bontà d’animo, che rende difficile ogni confronto. Perché se dici a Giuliano che la sua richiesta ad Amina è sessista e razzista insieme, lui ti risponde indignato:
“Ma io le voglio bene! La chiamo ‘la mia panterina africana’!”
E lo dice sorridendo, come se stesse recitando un pezzo di cabaret. E forse è proprio qui il punto: molti italiani non si sentono razzisti perché non odiano. Ma non si rendono conto che il razzismo non è solo odio: è anche guardarti dall’alto in basso mentre ti allunga la mancia.
E allora?
Allora niente. Non ci sono soluzioni facili. Ma raccontare queste storie serve. Serve a scardinare il mito dell’italiano bravo per definizione, che se fa una battuta lo fa per scherzo, che se ti chiede di metterti la minigonna è perché “è un complimento”, e che se ti chiama “la senegalese”, lo fa solo per ricordarsi da dove vieni, mica per discriminarti.
E magari serve anche a noi, che ci diciamo “diversi”, a riconoscere le piccole concessioni quotidiane che facciamo a questo sistema di sguardi storti, frasi di troppo e battute che puzzano di muffa.
Perché non basta dire “non sono razzista”. Bisogna anche smettere di esserlo. Anche — e soprattutto — quando si crede di non esserlo affatto.
(Giancarlo Salvetti)
Prompt:
intro: ha fatto scalpore ultimamente la vicenda di piccolo imprenditore veneto (inventa nome e cognome) accusato di battute razziste in pubblico; l'imprenditore, intervistato, dice che non è assolutamente razzista al punto che ha persino assunto una ragazza del Senegal nell'antico bar di famiglia (inventa il nome del bar, possibilmente in dialetto veronese) e di essere generoso con tutti.
parte 1: riporto le mie impressioni sull'imprenditore, che forse effettivamente non è una cattiva persona nel senso letterale del termine, però è un sintomo e proprio per questo interessante.
parte 2: Amina è la ragazza senegalese assunta nel bar. Dice che il signore non è razzista nel senso classico del termine ma che la tratta come una una bambina poco sveglia e l'ha praticamente obbligata a vestirsi in modo provocante per attirare i clienti, cosa che non ha mai richiesto alle altre ragazze del bar, pur belle.
parte 3: argomenta allargando la visuale, mantenendo un tono leggero, senza moralismo.
Articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3. Approfondisci dove necessario.
Assumendo la personalità di Giancarlo Salvetti, scrivi un approfondito articolo dal tono tagliente, ironico e brillante.
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