
La Disney che non ti aspetti? No. È esattamente la Disney che dovevi aspettarti: il colosso del divertimento che fiuta il vento politico meglio di una banderuola arrugginita sul campanile. Perché la Disney non è un tempio di valori. È un impero economico. E negli imperi, i principi valgono finché servono a proteggere i confini e a ingrassare le casse.
Torniamo indietro di qualche anno. Era il tempo del “woke capitalism”, con le corporation americane impegnate a dimostrare al mondo quanto fossero inclusive, progressiste, attente a ogni sensibilità. La Disney in prima fila: cacciava Gina Carano da The Mandalorian per qualche tweet conservatore, infilava nei suoi comunicati un rosario infinito di “diversità” e “uguaglianza”, e trasformava la sua immagine in un santino arcobaleno. Non era idealismo, era puro calcolo: stare dalla parte giusta della storia (cioè quella che dominava nei palazzi e nei media) garantiva protezione e profitti.
Oggi la stessa Disney si piega dall’altra parte. Jimmy Kimmel, volto storico della ABC, si permette di prendere di mira Trump e il movimento MAGA? Sospeso. Nonostante gli ascolti da record, nonostante sia una gallina dalle uova d’oro. Perché? Perché questa volta il vento soffia da destra, e resistere significa rischiare di farsi schiacciare. Brendan Carr, capo della FCC e bulldog di Trump, ha messo il colosso davanti a un ultimatum: o agite contro Kimmel, o rivediamo le licenze televisive delle affiliate ABC. Non è diplomazia, è un avvertimento mafioso con sigillo istituzionale.
E guai a pensare che sia un episodio isolato. Carr non è un funzionario con il complesso di Napoleone. È stato uno degli architetti del Project 2025, il piano con cui la destra trumpiana vuole rifondare l’apparato statale americano. Dentro quelle 900 pagine c’è scritto chiaramente: usare il potere regolatorio per piegare i media, i colossi digitali e le grandi aziende. Altro che libero mercato e libertà d’espressione: se non sei allineato, sei un ostacolo da rimuovere.
La Disney, davanti a questo scenario, ha fatto due conti: conviene combattere per difendere un presentatore, o conviene piegarsi e continuare a macinare miliardi con Marvel, Pixar e Star Wars? La risposta è stata immediata. Si sono inginocchiati, come si erano inginocchiati ieri al politically correct. Stessa postura, padrone diverso.
E qui sta il punto: la Disney non è incoerente, è coerentissima. Perché il suo unico valore è l’adattamento. Un darwinismo aziendale che mette al primo posto la sopravvivenza. Oggi sbandiera “Love is Love”, domani “MAGA is Magic”, dopodomani chissà. L’importante è restare in piedi, proteggere i bilanci e non finire nel mirino di chi governa.
La favola dei valori inossidabili non esiste. C’è la realtà di una multinazionale che cambia bandiera in base al vento. E se serve sacrificare un volto, una causa o un principio, non c’è problema: si fa. Alla fine, più che il regno della magia, la Disney è diventata il regno del trasformismo. Con una morale semplice: i valori non si toccano, certo. Finché non arriva qualcuno abbastanza potente da toccarti i conti in banca.
(Giovanni Sarpi)
Prompt:
Intro: la Disney che non ti aspetti. O forse... la Disney che in realtà ti dovresti aspettare!
parte 1: Qualche anno fa la Disney era il simbolo del "woke capitalism": licenziava Gina Carano da "The Mandalorian" per le sue posizioni conservatrici e spingeva forte su diversità e inclusione (DEI). Oggi sospende Jimmy Kimmel dopo le sue critiche a Trump e al movimento MAGA, nonostante lo show ammassi ottimi ascolti.
parte 2: Il vento politico è girato. Con Trump di nuovo alla Casa Bianca, la Disney si trova sotto tiro. Brendan Carr, il potente capo della FCC (l'autorità per le telecomunicazioni) nominato da Trump, ha minacciato esplicitamente di rendere la vita difficile alla Disney e di rivalutare le licenze TV delle affiliate ABC se non avessero preso provvedimenti contro Kimmel. Mossa isolata? Secondo me, no. Fa parte di un disegno più ampio: il Project 2025 (di cui Carr è stato estensore), il piano conservatore per rifondare l'apparato governativo statunitense e usare il potere regolatorio per "allineare" i media e le corporation all'agenda di destra.
parte 3: La Disney, da brava corporation, ha semplicemente calcolato i rischi e ha deciso che era meglio piegarsi che spezzarsi. Prima cavalcava l'onda progressista, ora si adatta a quella conservatrice per proteggere i suoi interessi. Un gigante dei media che naviga a vista, dove i principi sembrano essere negoziabili in base a chi è al potere.
parte 4: e brava la nostra Disney! I valori non sono negoziabili, certo, finché non li possiamo negoziare.
articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4.
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