Qual è il miglior film italiano del 2025 (e, incidentalmente, dell’anno)?

Senza dubbio La Città Proibita di Gabriele Mainetti. Un film che sembra provenire da un’altra epoca, quando esistevano produttori capaci di investire, visione artistica e voglia di rischiare. Mainetti, invece, lo fa da solo: si finanzia autonomamente, decide ogni singolo dettaglio e porta sullo schermo un’opera che respira indipendenza. E qui nasce la domanda cruciale: da chi non prende soldi? Perché questo non è un dettaglio: in un sistema dove quasi tutti dipendono dai finanziamenti pubblici, Mainetti è un caso raro, quasi un’eccezione genetica nel panorama cinematografico italiano.

I tagli al cinema
Il punto di cui voglio parlare, naturalmente, sono gli annunciati tagli ai fondi per il cinema da parte del governo. Tagli che sono stati presentati in pompa magna, come se fossero un gesto rivoluzionario di lungimiranza culturale. Per la cronaca, non sono affatto un simpatizzante del governo in carica, ma devo ammettere che qui il discorso cambia: quando una classe dirigente fa qualcosa che può scuotere un sistema marcio, non importa da quale parte arrivi. È un gesto che potrebbe avere conseguenze reali, e, soprattutto, necessarie.

Il cinema italiano com’era diventato
Perché di che stiamo parlando, ormai? Il cinema italiano era diventato un meccanismo marcio, simile ai famigerati “forestali calabresi”: un sistema che viveva di rendita, incapace di innovare o sorprendere. Film mediocri prodotti a ciclo continuo, senza coraggio, senza ambizione, senza la minima volontà di parlare al pubblico vero. Non si cercava più di emozionare, di creare esperienze cinematografiche memorabili: il fine ultimo era raccogliere oboli di Stato, contare i finanziamenti, incassare il contributo pubblico come mendicanti che ricevono un elemosina, senza più dignità, senza più stimolo a rischiare.

Il risultato era un cinema che sopravviveva con le sovvenzioni, generando opere che, per quanto politicamente corrette o “educative”, non avevano nulla da dire. Spesso la pretesa di “educare il popolo” prendeva il sopravvento sull’arte, e il cinema diventava uno strumento di clientelismo culturale, più che una forma di espressione.

Il clientelismo mascherato da cultura
Ecco il punto: puro clientelismo. Un sistema costruito per distribuire favori, ricompensare amici e mantenere in vita un circuito chiuso. Con velleità pedagogiche, per di più. C’è chi dice che l’intento era nobile: educare, guidare, alzare il livello culturale del pubblico. Ma la sostanza è sempre la stessa: controllo, dipendenza dai finanziamenti e mediocrità garantita. Quale sia la cosa peggiore, lo lascio giudicare a voi. Il cinema ridotto a macchina da finanziamenti o l’illusione di “educare” un pubblico passivo?

Un barlume di speranza
Ora, con questi tagli, forse — dico forse — le cose possono cambiare. Forse alcuni produttori saranno costretti a fare cinema vero, a tornare a rischiare, a cercare storie che abbiano valore intrinseco, che meritino di essere raccontate. Film che non vivono di elemosina, ma di talento, visione e ambizione. Che parlino al pubblico senza mediazioni, senza filtri politici, senza la paura di non incassare un centesimo dallo Stato.

Magari, liberati dai diktat dei finanziamenti a pioggia, alcuni registi riusciranno finalmente a creare qualcosa di cui andare fieri. Film capaci di conquistare il pubblico, di emozionare, di restare impressi nella memoria, invece di finire dimenticati appena usciti dal cinema. È un’occasione rara: la crisi del sistema potrebbe diventare terreno fertile per la rinascita di un cinema autentico, ambizioso e libero.

E allora, al di là dei proclami e delle ideologie, ci resta Mainetti come esempio: coraggioso, indipendente, capace di mostrare che è ancora possibile fare cinema italiano che abbia senso, passione e spina dorsale. Se il sistema non lo ucciderà, La Città Proibita potrebbe diventare la scintilla per un nuovo inizio.

(Giovanni Sarpi)

Prompt:

intro: qual è il miglior film italiano del 2025 (e, incidentalmente, dell'anno)? "La Città Proibita" di Gabriele Mainetti, senza dubbio. Un film che sembra provenire da un'altra epoca, quando esistevano produttori e investimenti. Il caso di Mainetti, capace di finanziarsi autonomamente e fare quel che vuole, è molto sui generis. Ma vi faccio una domanda: da chi NON prende soldi?

parte 1: il punto di cui voglio parlare, ovviamente, sono gli annunciati tagli ai fondi per il cinema, annunciati in pompa magna dal governo - di cui, ci tengo a precisare, non sono affatto un simpatizzante. Ma quando ci vuole ci vuole.

parte 2: Perché il cinema italiano, ormai, cosa era diventato? Un meccanismo marcio, un po’ come i famigerati “forestali calabresi”: un sistema che viveva di rendita, producendo a ciclo continuo opere mediocri. Film senza coraggio, senza visione, senza la minima ambizione di parlare al pubblico vero. Era un cinema che non cercava di intercettare lo spettatore per emozionarlo, ma solo di raccogliere gli oboli di Stato. Come mendicanti che vivono di elemosina, senza più la dignità di mettersi in gioco.

parte 3: Puro clientelismo. Con velleità di educare il popolo, tra l'altro. Quale sia la cosa peggiore, lo lascio scegliere a voi.

parte 4: Ora, con questi tagli, forse – dico FORSE – saranno costretti a fare cinema vero. A rimboccarsi le maniche, a cercare storie che valgano la pena di essere raccontate, a rischiare. Magari, liberi dai diktat dei finanziamenti a pioggia, riusciranno persino a creare qualcosa di buono. Qualcosa di cui andare fieri. Qualcosa che qualcuno, finalmente, avrà voglia di andare a vedere.

articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4.

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