Il Paradosso di Gaza Cola: Branding vs Realtà

Gaza Cola è stata lanciata come simbolo della resistenza palestinese, un’icona frizzante di autodeterminazione imbottigliata. “Una bevanda al 100% palestinese”, giura il fondatore Osama Qashoo, regista e attivista dal curriculum impeccabile quanto l’etichetta del prodotto. I profitti – ci dicono – saranno destinati alla ricostruzione dell’ospedale Al-Karama a Gaza. Un’idea potente: combattere l’oppressione armati di caffeina e marketing.

Poi però si guarda l’etichetta da vicino, si strofina un po’ e – sorpresa – emerge un retrogusto amarognolo.

Gaza, ma non troppo

Nonostante il nome, Gaza Cola non è imbottigliata a Gaza. Non è nemmeno prodotta lì. La bevanda della “resistenza palestinese” prende vita in Polonia, tra due cittadine che – ironia della sorte – ospitano anche stabilimenti della Coca-Cola, quel simbolo del capitalismo americano che Gaza Cola dovrebbe contrastare. E non finisce qui: la produzione avviene anche nel Regno Unito, mentre le lattine spuntano sugli scaffali di negozi in Italia, Kuwait e Londra Est.

La logistica grida globalismo, il marketing urla intifada. Uno scarto cognitivo che nemmeno il miglior slogan riesce a mascherare. Il risultato? Una delle operazioni commerciali più ambigue degli ultimi tempi. Se Gaza Cola fosse un reportage, verrebbe bollato come “fuorviante”.

Resistenza o racket?

La questione si complica quando si entra nel terreno minato – in senso quasi letterale – dell’economia gazawi. In un territorio dove Hamas controlla ogni centesimo che entra o esce, ogni iniziativa “autonoma” è tale solo sulla carta. Ogni container, ogni carico, ogni donazione umanitaria passa da una rete di tassazioni, prelievi e controlli che finanziano le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, braccio armato del gruppo.

La domanda, allora, è semplice: se anche Gaza Cola riuscisse un giorno a far arrivare i suoi profitti a Gaza (evento raro quanto l’ingresso di una nuova centrale elettrica), chi incasserebbe davvero? L’ospedale Al-Karama o l’arsenale del gruppo armato?

Coca-Cola: il nemico che fa più per i palestinesi

Paradossalmente, è proprio la “cattiva” Coca-Cola a fare qualcosa di più concreto per l’economia palestinese. Con stabilimenti in Cisgiordania e circa 6.500 lavoratori palestinesi impiegati, il colosso americano contribuisce direttamente all’occupazione – no, non quella israeliana, ma quella desiderabile: l’occupazione lavorativa.

Gaza Cola, al contrario, appare più come un brillante esercizio di branding ideologico che come reale alternativa. Il parallelo è scomodo ma inevitabile: così come Hamas è stato accusato di rivendere il cibo gratuito dell’UNRWA a prezzi maggiorati, Gaza Cola sembra inserirsi in una logica di sfruttamento della sofferenza palestinese. Un capitalismo in kefiah, dove la causa diventa packaging e il profitto si maschera da solidarietà.

La cancel culture a senso unico: il caso Azealia Banks

E mentre la lattina patriottica fa il giro d’Europa, chi osa uscire dal copione si ritrova tagliato fuori. Azealia Banks, artista americana notoriamente refrattaria al politically correct, è stata cancellata da due festival in Inghilterra per aver rifiutato di dire “Free Palestine” e, colpo di scena, di indossare un hijab solidale.

Non importa che Banks sia nera, donna e marginalizzata: la solidarietà oggi è a geometria variabile. O reciti la parte assegnata – possibilmente con una lattina in mano e uno slogan sulla maglietta – o sei fuori.

Polonia: patria della resistenza… ma di chi?

Ultima nota di colore (oscuro): Gaza Cola viene imbottigliata, come abbiamo detto, in Polonia, oggi teatro di un’ondata crescente di estremismo di destra, con un governo che definire accogliente sarebbe comico. Un paese che respinge migranti alla frontiera e in cui la solidarietà internazionale si misura con il calibro delle manganellate.

Ma va bene così. La geopolitica della lattina non ha tempo per queste sottigliezze. Finché il design è “resistente” e l’etichetta urla Palestina, tutto passa.

Rivoluzione da scaffale

Gaza Cola è il perfetto prodotto del nostro tempo: identitario, instagrammabile, e politicamente spendibile. Ma dietro l’etichetta si nasconde un mix tossico di opacità commerciale, sfruttamento simbolico e, forse, finanziamento indiretto a un gruppo armato.

Altro che rivoluzione: qui siamo di fronte a una raffinata operazione di brand-washing. Con bollicine.

(Serena Russo)

Prompt:

Intro: Gaza Cola è stata lanciata sul mercato come simbolo della resistenza palestinese e dell’autosufficienza economica. Fondata dal regista e attivista palestinese Osama Qashoo, l’iniziativa si presenta come un progetto al 100% palestinese, con l’obiettivo dichiarato di destinare i profitti alla ricostruzione dell’ospedale Al-Karama a Gaza.

parte 1: Nonostante il nome, Gaza Cola non è prodotta a Gaza, bensì imbottigliata in Polonia, in due cittadine dove si trovano anche stabilimenti della Coca-Cola. Inoltre, viene prodotta anche nel Regno Unito e distribuita principalmente lì, con segnalazioni di vendita anche in Italia e Kuwait. Questo solleva interrogativi sull’effettiva trasparenza dell’operazione e sulla coerenza tra il messaggio promozionale e la realtà logistica e commerciale.

parte 2: In un contesto come quello di Gaza, dove Hamas esercita un controllo capillare sull’economia, ogni attività commerciale è soggetta a tassazioni e prelievi che finanziano direttamente l’ala militare del gruppo, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam. Anche iniziative apparentemente indipendenti, come Gaza Cola, rischiano di diventare canali involontari di finanziamento per un’organizzazione che opprime la popolazione locale e alimenta il conflitto con Israele.

parte 3: La Coca-Cola stessa ha stabilimenti in Palestina, dove impiega circa 6.500 lavoratori palestinesi, contribuendo all’economia locale in modo più diretto e trasparente. In questo contesto, Gaza Cola appare più come un’operazione commerciale opportunistica, che sfrutta la causa palestinese per fini di marketing, piuttosto che un autentico strumento di emancipazione economica. A ciò si aggiunge un parallelo inquietante: come Hamas è stato accusato di rivendere a prezzi maggiorati il cibo fornito gratuitamente dall’UNRWA, anche Gaza Cola sembra inserirsi in una logica di sfruttamento della sofferenza palestinese per profitto, in perfetto stile mafioso.

parte 4: Gaza Cola risponde perfettamente alle logiche identitarie e posizionali, contro cui si è recentemente pronunciata Azaelia Banks, che si è vista cancellata da due festival in Inghilterra per il rifiuto di dire "Free Palestine" e di indossare un hijab "solidale".

parte 5: È interessante notare che la Polonia, dove Gaza Cola viene imbottigliata, è oggi teatro di una crescente ondata di estremismo di destra.

Articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5; approfondisci dove ritieni necessario.

Assumendo la personalità e lo stile di scrittura di Serena Russo, scrivi un articolo tagliente e brillante, con sarcasmo.


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