Referto su un Veleno Retorico: Anatomia del Discorso Pro-Palestinese

Dopo l’articolo di ieri, in cui osavo (orrore!) non aderire a una narrazione monocorde del conflitto israelo-palestinese, ho ricevuto il consueto florilegio di accuse: “Sionista infame”, “Complice dei coloni”, “Israele ti paga?”. Risposta breve: no, e se lo facesse probabilmente mi chiederebbero anche la parcella.

Così, da brava testarda quale sono, ho deciso di fare un passo in più. Di andare oltre la polemica, oltre la tifoseria, e smontare il giocattolo. Quello narrativo, intendo.
Considerate questo articolo come il referto di un chimico forense su un veleno rinvenuto sulla scena del crimine. Il crimine è intellettuale. Il veleno è un certo tipo di retorica pro-palestinese — quella più insidiosa perché si finge verità morale.

Retorica camuffata da spontaneità

La retorica pro-palestinese dominante — non tutta, ma quella che oggi grida più forte — non si distingue tanto per ciò che dice, quanto per come lo dice. Il messaggio non è solo nel contenuto, ma nella struttura che lo veicola. È costruito per sedurre l’intelligenza e anestetizzarla con una sequenza emotiva calibrata: dolore → colpa → indignazione → condanna.

Il lessico è accorato, mai analitico.
Il tono è perentorio, mai interrogativo.
E l’obiettivo è chiaro: trasformare la complessità in un riflesso pavloviano.

Le figure retoriche del veleno

Eterotelia dell’argomento
Si parte da una premessa umanitaria innegabile — i civili palestinesi soffrono, e molto — per giungere, in modo sorprendentemente lineare, alla conclusione che Israele non debba esistere. La sofferenza viene sfruttata non per migliorare il futuro, ma per cancellare l’interlocutore. L’emozione è usata come leva per orientare la ragione, fino a zittirla del tutto.

Chiasmo etico
Vittima e carnefice si invertono in modo sistematico. Ogni violenza commessa da Hamas è “reazione”, ogni risposta israeliana è “aggressione”. L’attacco è sempre preceduto da un torto eterno, l’omicidio è giustificato dal contesto, il massacro è “frutto del colonialismo”.
Lo scambio di ruoli è talmente reiterato che diventa protocollo.

Sineddoche selettiva
Un colono fanatico, un soldato arrogante, un checkpoint degradante: questi elementi, reali e gravi, diventano l’immagine totalizzante dell’intero Stato d’Israele. Si seleziona il dettaglio emotivamente potente e lo si trasforma in paradigma. Il tutto, ovviamente, sorretto dalla falsa dicotomia morale: da una parte la purezza dell’oppresso, dall’altra la mostruosità dell’oppressore.

In questa costruzione non c’è spazio per i dissidenti palestinesi, per gli israeliani critici, per i civili che non stanno con nessuno. Non esistono. Non servono. Complicherebbero lo schema.

Israele come capro espiatorio simbolico

Il cuore del discorso è qui: Israele non viene giudicato per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta. È il contenitore simbolico su cui scaricare colonialismo, senso di colpa occidentale, fallimento della sinistra, nostalgia per la rivoluzione mancata.

Come ci ha insegnato René Girard, il capro espiatorio funziona solo finché non viene riconosciuto come tale. Il discorso pro-pal, infatti, evita come la peste qualsiasi riflessione che smascheri la dinamica sacrificale. Israele deve incarnare il Male per giustificare il Bene assoluto dell’altra parte.

Ed ecco allora l’apocatastasi invertita:
Non importa se l’“oppresso” fa stragi, rifiuta il dialogo, opprime a sua volta.
La sua posizione storica lo redime in anticipo. È immune da colpe, perché resiste. E resistere — parola ormai liturgica — giustifica tutto.

Post-strutturalismo come feticcio, non come lente

L’apparato teorico c’è, ma è scenografico.
Viene citato Fanon (male), Foucault (meccanicamente), Said (a metà). I riferimenti culturali servono a decorare, non ad argomentare. L’analisi si riduce a una semplificazione radicale, dove chi prova a portare contesto viene accusato di relativismo, chi propone complessità viene ridotto a complice.

In realtà, questo tipo di retorica non cerca giustizia, cerca vittorie narrative.
Non chiede domande, chiede adesione.
Non costruisce ponti, traccia confini.

E chi sta in mezzo?
Colpevole. Per omissione. Per ambiguità. Per non essersi inginocchiato davanti al totem dell’unica sofferenza riconosciuta.

Contro-narrazione o silenzio?

Chi pensa che basti snocciolare dati o citare risoluzioni ONU per rompere questa egemonia discorsiva è fuori strada. Questo tipo di linguaggio non si sfida con i numeri, ma con un altro linguaggio. Serve una contro-narrazione che non cada nella trappola opposta, quella del cinismo o della demonizzazione inversa. Serve un discorso che smascheri i dispositivi, che faccia esplodere le liturgie verbali, che ridia dignità alla complessità.

Perché oggi il vero atto radicale non è tifare.
È capire. Anche ciò che non ci rassicura. Anche ciò che non ci conviene.

E se nel farlo ti chiamano “sionista”, “traditrice”, “intellettuale colonialista”…
va bene.
Vuol dire che hai toccato il nervo scoperto.

(Serena Russo)

Prompt:

Intro: dopo l'articolo di ieri, ho deciso di approfondire linguaggio e retorica pro-pal. Prendete questo articolo come il referto di un chimico forense sul veleno rinvenuto in una scena del crimine.

parte 1: il discorso propalestinese non si distingue tanto per ciò che afferma esplicitamente, quanto per la sua struttura retorica. Dietro l’apparente spontaneità emotiva si cela una costruzione sofisticata, pensata per orientare la percezione morale del conflitto e semplificare la complessità geopolitica in categorie assolute.

parte 2: Le figure retoriche dominanti sono Eterotelia dell’argomento: si parte da una premessa umanitaria – la sofferenza dei civili palestinesi – per giungere alla delegittimazione dell’esistenza stessa di Israele. L’emozione diventa strumento di spostamento ideologico.
Chiasmo etico: si invertono i ruoli tra vittima e carnefice, sfruttando la sofferenza reale per bloccare ogni argomentazione razionale. L’immagine emotiva prevale sul contesto e la reazione cancella la causa. Sineddoche selettiva: un dettaglio emotivamente potente (un colono violento, un checkpoint) viene elevato a rappresentazione dell’intero Israele. Questo si combina con la falsa dicotomia morale: da un lato l’oppresso, dall’altro l’oppressore, senza spazio per la complessità.

parte 3: Il cuore del discorso propal è la trasformazione di Israele in capro espiatorio simbolico. Non viene giudicato per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta: colonialismo, militarismo, senso di colpa occidentale. Come insegna René Girard, il capro funziona finché resta invisibile come tale. Parallelamente, si costruisce una apocatastasi invertita: l’oppresso viene redento preventivamente. Anche se compie stragi o rifiuta il dialogo, la sua sola esistenza come “resistente” lo colloca automaticamente dalla parte giusta della storia.

parte 4: Questa macchina discorsiva non è ingenua: cita Fanon, Said, Foucault, ma ne usa le categorie come strumenti di polarizzazione. Il suo obiettivo non è la giustizia, ma la riduzione binaria del mondo. Per contrastare questa egemonia simbolica non bastano i dati o le smentite. Serve una contro-narrazione capace di accogliere la complessità, di smascherare i dispositivi retorici e di restituire dignità alla realtà, anche quando è scomoda.

articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4; approfondisci dove necessario.

Scrivi un articolo, assumendo il ruolo di Serena Russo, tagliente, graffiante, ironico.

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