Swift Cinematic Universe: l’arte di trasformare l’emozione in franchising

Se c’è una cosa che non ho mai capito, è Taylor Swift. Non tanto lei, quanto il culto che la circonda. Ogni sua mossa, ogni battito di ciglia, ogni cambio di pettinatura scatena articoli, analisi, dibattiti. La stampa musicale – anche quella che un tempo parlava di Fugazi o Nick Cave – si mette in fila per decifrare le sue canzoni come fossero frammenti di un manoscritto scomparso di Omero. Io non ho nulla contro di lei, davvero. È un’artista capace, intelligente nel gestire la propria immagine, perfettamente consapevole di dove si trova. Ma continua a sfuggirmi la ragione di questo fenomeno: perché proprio lei? Perché tanta attenzione per una musica che, tutto sommato, è pop standard, ben costruito ma inoffensivo? Perché ogni suo disco deve essere trattato come un evento cosmico? La risposta – lo prometto – arriva alla fine. Prima, però, seguitemi: ho fatto i compiti per capire.

In principio fu Stan. Eminem, anno 2000. Una canzone che parlava di un fan ossessivo, invasato, che scrive lettere al suo idolo finché, non ricevendo risposta, si suicida. Era un pezzo durissimo, inquietante, che raccontava l’amore tossico per la celebrità. Poi, come succede a molte parole nate per ferire, “stan” è stata addomesticata. Oggi indica un fan estremamente devoto, pronto a difendere la propria icona sui social come un crociato digitale. La follia è diventata appartenenza. Il disagio si è trasformato in identità.

Essere uno stan, oggi, non significa più amare un artista, ma essere parte di lui – o meglio, del suo marchio. Lo stan non è spettatore ma protagonista: commenta, interpreta, corregge, costruisce narrazioni parallele. Vive dentro un ecosistema dove l’artista diventa un medium, una fonte inesauribile di contenuti e significati da condividere. È religione secolare, ma anche marketing puro. Ogni like è una preghiera, ogni retweet un’offerta votiva. E l’altare più frequentato è quello di Taylor Swift.

Il fandom di Taylor è la Bibbia della stan culture. Non si limita a consumare musica: la trasforma in linguaggio, in codici, in cacce al tesoro. Ogni canzone è un indizio, ogni video una mappa, ogni foto su Instagram un versetto da decifrare. C’è un’intera economia simbolica attorno a lei: date che coincidono con anniversari, colori che rimandano a vecchi dischi, numeri nascosti nei testi. Tutto è deliberatamente decifrabile. Non c’è spontaneità, c’è design emotivo. Taylor Swift non scrive solo musica: costruisce labirinti narrativi in cui i fan, felicemente, si perdono.

Il risultato è un’esperienza che somiglia più a un gioco di ruolo che a una carriera musicale. Ogni album è un nuovo capitolo, ogni relazione sentimentale un colpo di scena, ogni apparizione pubblica un episodio del grande Taylor Swift Cinematic Universe. In questo universo, la musica è solo un pretesto. Il vero prodotto è la continuità: la promessa che ci sarà sempre un nuovo indizio, un nuovo dramma, un nuovo puzzle da risolvere. L’industria non vende dischi, ma partecipazione. Non emozioni, ma appartenenza.

E i media musicali? Loro sono rimasti orfani di un mondo in cui gli artisti contavano davvero nel discorso culturale. Quando esistevano figure che rischiavano, che sfidavano lo status quo, che mettevano la propria arte al servizio di un’idea. Bob Dylan che spiazza tutti passando dall’acustico all’elettrico. I Clash che gridano politica in tre accordi. Patti Smith che trasforma la poesia in un atto di guerra. Quella stagione è finita, e chi scrive di musica lo sa. Ma il vuoto è insopportabile, quindi si cerca un nuovo oggetto di culto, una figura che riempia lo spazio simbolico. Taylor Swift è perfetta per questo ruolo: non perché dica qualcosa di importante, ma perché sembra dirlo.

La critica, così, si aggrappa a lei come a un’ancora. Ci costruisce sopra analisi, interpretazioni, saggi di estetica pop, tutti rigorosamente ponderosi. È una forma di autoinganno collettivo: la convinzione che, se prendiamo sul serio una popstar, torneremo a dare senso al nostro mestiere. Che se analizziamo Midnights come si analizzava The Dark Side of the Moon, allora la cultura pop sarà di nuovo “importante”. In realtà, è solo la paura del silenzio.

E siccome abbiamo il difetto di prendere sul serio le celebrità, finiamo per scambiare l’abilità di gestire il consenso per profondità artistica. Taylor Swift è diventata il simbolo di questa epoca: un’industria dell’emozione perfettamente confezionata, in cui tutto è calcolato per sembrare spontaneo. La sua forza non è la musica – mai particolarmente innovativa – ma la capacità di incarnare un’idea di autenticità programmata, replicabile, vendibile.

Il punto, alla fine, è che Taylor Swift non è un’artista: è un ecosistema. È il prodotto più riuscito di un tempo in cui l’attenzione è merce e l’identità è contenuto. I fan non ascoltano più: partecipano, investono, difendono. E la critica non valuta: accompagna, amplifica, giustifica. In mezzo, resta solo la domanda: e la musica, dov’è finita?

La risposta è semplice e un po’ amara. Taylor Swift è il sintomo di un sistema in cui la cultura pop non esiste più come linguaggio, ma come piattaforma di appartenenza. È il volto sorridente di un’epoca in cui l’arte non deve più far pensare, ma coinvolgere. In fondo, non è colpa sua: ha solo capito meglio di tutti le regole del gioco. Siamo noi, piuttosto, ad aver dimenticato che un tempo si ascoltava per capire il mondo, non per sentirci parte di un hashtag.

E se ci pensate, pure questo articolo chiude il cerchio: un pezzo che critica il culto di Taylor Swift, contribuendo a mantenerlo in vita. Forse, alla fine, il suo vero genio è proprio questo — farci parlare di lei anche quando giuriamo di non volerlo fare.

(Luigi Colzi)

Prompt:

Intro: se c'è una cosa che non ho mai capito è Taylor Swift. Non tanto lei o la sua musica, ma perché ogni sua uscita venga sezionata al microscopio, anche dalle pubblicazioni musicali "serie", con ponderosi articoli. Non ho niente contro di lei, solo mi pare faccia musica pop del tutto irrilevante, come mille altre. Perché? La risposta la do alla fine, intanto seguitemi. Ho fatto i compiti per capire meglio il fenomeno.

parte 1: in principio fu "Stan", la canzone di Eminem del 2000 che parlava di un fan ossessivo e ossessionato, chiamato Stan, che alla fine si suicida. Col tempo, la parola è stata "reclamata" dalle comunità di fan online. Il suo significato si è ammorbidito, perdendo gran parte della connotazione negativa originale, per descrivere semplicemente un livello di dedizione molto alto.

parte 2: vi spiego cosa significa oggi essere uno "stan" (la parola è diventata sostantivo, nel frattempo).

parte 3: vi spiego come mai il fandom di Taylor Swift è un paradigma di stan culture.

parte 4: vi spiego come Taylor Swift ha costruito la sua carriera come un Taylor Swift Cinematic Universe.

parte 5: i media musicali, ancora fermi ad un mondo in cui c'erano le star rilevanti che entravano nel discorso pubblico ed erano culturalmente significative in qualche modo, sono orfani di tutto ciò. Per questo costruiscono una ponderosa letteratura su Taylor Swift, che un tempo avrebbero ignorato quando non apertamente denigrato. Concludo con una battuta riflettendo che pure questo articolo fa parte di ciò che critica e alimenta la spirale.

Articolo: intro, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5; esplora approfonditamente tutto quanto è emerso. Assumendo la personalità di Luigi Colzi, scrivi un articolo, usando un tono sarcastico e arguto.

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4 commenti

  1. Forse il primo esperimento riuscito di transmedialità/ipermedialità del genere lo dobbiamo certi innominabili Zappaghiaccio Di Kitee.

    Tra licenziamenti in teatrale pompa magna, libri di pettegolezzi, interviste maligne qua e là, video musicali, concept album e un vero e proprio film finanziato con denaro pubblico che si dovrebbe “ispirare” alla realtà biografica degli Zappaghiaccio suddetti, hanno fatto su facile una ventina di dischi di platino.

    L’engagement del pubblico, che proprio quando Essi imboccavano questa via diventava un pubblico utilizzatore di massa del web e dei forum di discussione (in particolare la demografica di riferimento, in questo senso almeno un decennio avanti sulla popolazione generale), non ha tardato ad arrivare.

    I fan da vent’anni cercano nei testi i segni inequivocabili che Coso fosse innamorato di Cosa che faceva pompini a L’Altro.

    Si chiedono se Lick My Love Pump sia un riferimento a quel fattaccio di cui si accenna nella Biografia Ufficiale, a cui tuttavia alluderebbero le rune incise sulla pietra nella copertina del film.

    E si scannano sui forum, ma non come Hagar vs. Roth.

    I dischi gli piacciono tutti egualmente, la questione è tutta sulla ricostruzione forense e sul successivo giudizio morale: “chi ha ragione”?

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      • Nulla che arrivare a pagina 2 della pagina reddit dedicata non possa curare.
        Eviterei di arrivare a pagina 3 per la salute mentale.

        Ma a dirla tutta, pure se i fan non avessero abboccato (e i Nostri fossero quindi tornati a lavorare nella stessa macelleria di Raymond Rohonyi o nello stesso asilo di Anita Auglend), sarebbe stato un tentativo fallito ma comunque un _tentativo_.

        Esplicito e sistematico.

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      • (La parola chiave è “sistematico”, perché c’era già “Paul is Dead”, ma i Beatles non avevano INTENZIONALMENTE coltivato quelle stronzate o suggerito a Charles Manson che “Helter Skelter” fosse un manifesto politico crittato.)

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